18.9 Rinascimento e religione
Si è spesso insistito da parte degli storici sul carattere "laico" o addirittura "pagano" del Rinascimento. Non c'è dubbio - lo abbiamo visto più volte in questo capitolo - che il Rinascimento affermò in quasi tutti i campi, dalla politica all'etica, dalla scienza al pensiero storico, l'autonomia del sapere e dei valori umani rispetto alla religione. Ma per altro verso il Rinascimento, considerato nel suo complesso, non fu affatto né ateo né pagano: i protagonisti della cultura di quest'epoca non intendevano rinunciare alle loro credenze di cristiani, o a quello che ritenevano essere il nucleo essenziale della religione: l'esistenza di Dio, l'immortalità dell'anima, la fede nella virtù morale.
Inoltre, a ben guardare, lo stesso rapporto, così forte e profondo, che la cultura rinascimentale aveva con l'antichità classica rivela una forma mentale molto vicina alla mentalità del Medioevo cristiano. Si tratta - ha scritto Federico Chabod di "un atteggiamento fondamentale dello spirito umano di fronte alla storia e al processo storico. La fede nella possibilità di un "rinnovo" [...] in qualsiasi campo, da quello religioso a quello politico, a quello artistico, presuppone infatti la ferma convinzione che in un momento ben determinato della storia umana si sia attuato l'ideale - religioso o artistico o politico -, si sia rivelata la Verità: si prende a modello ciò che è accaduto solo quando si è intimamente convinti che l'accaduto rappresenti la perfezione [...]. Ci si ritrova così dinanzi ad un atteggiamento tipico della mentalità religiosa in genere e in ispecie della mentalità cristiana, per cui la Verità si è rivelata in un momento preciso della storia [...] dinanzi ad un atteggiamento che costituisce parte notevolissima dello spirito medievale, più e più volte tormentatosi nel vagheggiamento del "ritorno" alla Chiesa primitiva, del "rinnovo" della povertà e purezza evangelica".
I rapporti tra problema religioso e cultura umanistica furono molto stretti soprattutto al di fuori dell'Italia, e si ritrovano già, alla fine del '300, per esempio nel movimento religioso della Devotio moderna, animato da grandi personalità quali l'olandese Gerard Grote e il suo allievo Tommaso di Kempis: il riferimento diretto alla vita di Cristo diventava il modello costante della vita quotidiana, in una forma di umanesimo cristiano che saldava strettamente esperienza intellettuale e misticismo. I rapporti tra problema religioso e cultura umanistica rappresentano anche l'aspetto più significativo, e più carico di conseguenze storiche, dell'irradiamento dell'umanesimo italiano in Europa. Nell'opera di
Erasmo da Rotterdam (1466-1536), il massimo rappresentante degli studi umanistici d'oltralpe, si ritrovano, applicati ai testi sacri e, più in generale, religiosi, i metodi della filologia umanistica. Egli affermò la necessità di leggere i testi sacri nella loro lingua originale e non soltanto nella traduzione latina accettata ufficialmente dalla Chiesa, e per questo preparò l'edizione critica dell'originale greco del Nuovo Testamento; si dedicò inoltre all'edizione, rinnovata su basi filologiche, dei Padri della Chiesa.
L'attività erudita di Erasmo era strettamente collegata alla sua iniziativa di sostenitore del rinnovamento e della riforma della Chiesa, alla ricerca di una religiosità e di una morale più profonde e intense. Nel suo celebre Elogio della follia (1511) egli dispiega tutto il suo temperamento ironico e polemico, attaccando e demolendo i più consolidati luoghi comuni e qualsiasi forma di bigotteria, le vane elucubrazioni dei teologi e la stoltezza dei superstiziosi, la corruzione del clero. "Erasmo - è stato detto - esprime un senso di superiorità intellettuale, a cui è pervenuta la nuova cultura, con un impiego particolare di una dimensione etico-psicologica inusitata: il ridicolo".
Questa corrente di pensiero ricca di fiducia nella ragione e nei valori della libertà di pensiero toccò livelli altrettanto alti nel libro dell'Utopia del filosofo inglese
Tommaso Moro (1478-1535), nel quale si descrive quella città umana che non si trova da nessuna parte e che pure vive nella fantasia e nelle aspirazioni degli intellettuali. Utopia è un luogo felice, dove gli uomini vivono, modestamente e semplicemente, nell'armonia della mitica età dell'oro. Ma essa è anche uno specchio rovesciato del disordine, della corruzione, dell'insensato affannarsi dell'età contemporanea, di tutti quei mali, insomma, che la ragione umanistica rifiutava di accettare.
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