6.12 Le condizioni di vita nelle campagne
Il crollo demografico che seguì la fine dell'Impero romano e l'epoca delle invasioni, avrebbe in teoria consentito alle popolazioni della prima età medievale un'equilibrata distribuzione delle risorse alimentari. L'alimentazione è infatti strettamente dipendente dal rapporto tra la massa della popolazione da nutrire e la quantità (oltre che la qualità) dei mezzi di sussistenza disponibili. Le terre d'Europa erano in sostanza sufficientemente fertili e vaste per nutrire tutti gli uomini che le abitavano. In Europa si coltivavano, anche nei momenti più drammatici e oscuri delle invasioni, tutti i prodotti che una millenaria tradizione agricola e alimentare aveva diffuso. Dalla Sicilia al Mare del Nord non c'era regione in cui, in vario modo, non ci si potesse rifornire di cereali, di olio, di vino. I romani, che in queste cose erano stati maestri, avevano infatti insegnato a coltivare con successo specie vegetali anche in zone dove il clima era meno propizio. Quanto all'allevamento, un'adeguata selezione delle razze consentiva di allevare pecore, capre, maiali, buoi tanto nelle aride montagne dell'Appennino lucano o calabro, quanto nelle rigogliose pianure della Francia, della Baviera o della Danimarca. L'insediamento dei germani aveva inoltre potenziato queste possibilità arricchendo la cultura alimentare romana di nuovi prodotti e nuove tecniche, soprattutto derivate dall'allevamento. Ma il mondo medievale è anche il mondo dei boschi e delle selve, che non servivano soltanto come preziosa fonte di legname. Economia della selva, infatti, vuol dire anche caccia e raccolta; risorse che nelle province più avanzate dell'Impero romano erano state confinate in un ruolo marginale, assunsero ora un ruolo importante che integrava e arricchiva l'alimentazione contadina: oltre alla cacciagione, il bosco offriva funghi, miele, castagne, noci e tanti altri prodotti che costituivano un settore fondamentale nella dieta dell'uomo medievale. In circostanze normali essa era una dieta quanto mai sana ed equilibrata, completa di carboidrati, proteine, vitamine; le tecniche di conservazione degli alimenti, già sufficientemente sviluppate nel mondo antico, consentivano inoltre un consumo prolungato durante le varie stagioni dell'anno.
Si potrebbe dunque affermare che l'incontro tra i germani e i romani migliorò, sotto il profilo dell'alimentazione, le condizioni di vita delle masse contadine, soprattutto perché consentì l'integrazione sistematica tra il settore produttivo silvo-pastorale e il settore produttivo agrario. Ma questa affermazione, che pure ha una sua solida base di verità, alla luce dei fatti risulta in fondo alquanto paradossale.
Come abbiamo visto l'alimentazione delle popolazioni contadine era sufficientemente varia ed equilibrata, in circostanze normali. Ma che cosa vuol dire "in circostanze normali"? Affrontare questo problema significa affrontare un problema centrale nella storia di quest'epoca: la penuria, la scarsità di risorse, la fame. Quando tutto va bene, quando il clima è regolare, quando non ci sono carestie o epidemie, il contadino è in grado di sopravvivere decentemente e di provvedere alla propria famiglia. Ma basta che qualcosa modifichi questo fragile equilibrio, perché subentri il dramma. La fame è infatti la grande signora del Medioevo. Essa dominava i racconti popolari, le leggende, le storie di santi, ma dominava ancor più la vita dei contadini. L'appropriazione da parte dei signori di tutto il surplus da loro prodotto, li metteva in condizioni di perenne precarietà. Senza riserve che consentissero di affrontare i momenti difficili, i contadini erano in balia del caso. Per questo, come si è detto, il clima era il loro peggiore nemico; bastava una cattiva stagione, un raccolto andato a male per scatenare una catastrofe: alle intemperie seguiva la carestia, alla carestia l'epidemia, a quest'ultima la morte. In un sistema economico chiuso, frammentato in migliaia di ville, con le vie di traffico incerte e pericolose, le autorità non erano più in grado, come al tempo dei romani, di far giungere da lontano convogli di rifornimento prima che fosse troppo tardi.
Accanto alla fame derivante dalle carestie, dalle guerre, dalle calamità naturali, c'era anche una fame di tipo diverso, meno appariscente forse, ma altrettanto insidiosa. È quella che gli specialisti chiamano fame specifica o qualitativa. Essa si identifica con la mancanza o carenza di alcuni elementi fondamentali dell'alimentazione (proteine, grassi, vitamine, ecc.). Questa mancanza provoca le cosiddette "malattie di carenza"; il corpo, infatti, s'indebolisce e viene esposto a malattie di ogni genere, soprattutto infettive. Erano queste carenze alimentari, accanto ad altri fattori, a determinare, nell'uomo medievale, una durata media della vita molto bassa.
In età carolingia le rese agricole erano dell'ordine del 2 per 1: per ogni misura di grano seminata se ne ottenevano normalmente due, da cui bisognava togliere il quantitativo necessario per la semina successiva; ma in molti casi esso era ancora più basso, dell'ordine dell'1,7 per 1. Questa scarsissima produttività dipendeva dalle caratteristiche generali dell'economia dell'epoca; un sistema tendenzialmente chiuso, in cui è difficile importare generi di prima necessità, si orienta infatti verso la policoltura; i proprietari, non potendo concentrarsi su pochi prodotti di alta resa e qualità, cercavano di ottenere da un determinato territorio tutta la gamma possibile dei prodotti necessari; ciò provocava inevitabilmente una notevole forzatura delle colture, spesso praticate su terreni inadatti e in condizioni climatiche poco favorevoli, e ne determinava lo scarso rendimento. Non erano infatti molti i proprietari (laici o ecclesiastici) che potevano contare su terre disperse in varie regioni, da cui far provenire i prodotti locali (per esempio dal Sud l'olio e il vino, dal Nord il grano e i prodotti dell'allevamento).
Un altro fattore negativo era il basso livello delle tecniche agricole; indifferenti al problema del loro perfezionamento, i grandi proprietari non avevano altro mezzo per accrescere la produttività che quello di estendere la superficie coltivata a danno dei pascoli e delle foreste: l'agricoltura medievale - è stato detto giustamente - era una grande "divoratrice di terre".
Se è vero che la povertà, l'insicurezza, la mancanza di qualsiasi protezione legale spingevano le masse contadine a cercare la "protezione" di un signore come unica ancora di salvezza, è anche vero che questa "protezione" era spesso sentita come uno sfruttamento disumano e intollerabile. Il potere incontrollato che il signore aveva sulle proprie terre si manifestava infatti non di rado in richieste esagerate e pressanti di prestazioni di lavoro o in altri abusi. Il signore stabiliva, per esempio, a sua discrezione le tariffe per l'uso delle grandi attrezzature agricole, come il mulino o il torchio, e talvolta lo rendeva addirittura obbligatorio, costringeva i contadini a cedergli i prodotti dei campi ai prezzi da lui stabiliti, disponeva a piacimento delle loro bestie e dei loro attrezzi. L'oppressione dei grandi proprietari spingeva spesso i contadini a organizzarsi in associazioni che la legge, a più riprese, cercò di reprimere. Già l'Editto di Rotari nel 643 (
3.5) comprendeva norme di questo genere:
Se un gruppo di servi entra in un villaggio per fare del male e uomini liberi lo aiutano, questi ultimi dovranno pagare un'ammenda di 90 soldi, mentre ogni servo pagherà 40 soldi.
Se per un motivo qualsiasi dei contadini sì riuniscono, che il loro scopo sia quello di accordarsi e ribellarsi o che vogliano intromettersi per strappare uno schiavo dalle mani del padrone [...] colui che li guida sarà ucciso o sarà ridotto in schiavitù.
Ma il fenomeno aveva le sue profonde e radicate origini nelle miserabili condizioni di vita dei contadini, e proprio per questo non era facilmente estirpabile. Un capitolare dell'820 prevedeva addirittura delle pene per quei padroni che non riuscivano a tenere a freno la violenza dei loro servi e nell'841 una grave rivolta verificatasi in una contrada del Regno franco suscitò il preoccupato commento di un ignoto cronista: "Il potere dei servi ha superato quello dei padroni, ed essi hanno preso il nome di ribelli; hanno compiuto atti scriteriati e i proprietari della loro regione sono stati colpiti e umiliati". Nell'884 la resistenza ai signori aveva raggiunto tali proporzioni che fu promulgato un altro capitolare per proibire ai villani (gli abitanti del villaggio) di riunirsi in coniurationes (letteralmente "congiure"), cioè gruppi vincolati da un giuramento di aiuto reciproco contro i potenti.
Ma la più frequente manifestazione della resistenza dei contadini era la fuga. Si fuggiva per sottrarsi alla prepotenza dei signori, alle eccessive richieste di corvées, alle ingiustizie, anche se l'impresa non era certo facile e le punizioni molto severe. Un episodio della Vita di Geraldo di Aurillac, santo e proprietario terriero, mette in luce la tolleranza e la virtù del protagonista, che lascia liberi i suoi coloni di trasferirsi altrove:
Un giorno Geraldo s'imbatté in alcuni dei suoi coloni, i quali, abbandonate le loro dimore, partivano per altri luoghi. Egli li riconobbe e domandò loro dove stessero andando; essi risposero che si stavano allontanando perché erano stati maltrattati, anche se lui personalmente aveva fatto solo del bene. I soldati che accompagnavano Geraldo gli consigliarono di farli punire e di costringerli a far ritorno alle terre che avevano abbandonato. Ma egli non volle, e consentì ai coloni di andare dove volevano e gli donò la libertà di circolare.
Dal punto di vista sociologico il fenomeno più significativo è tuttavia il banditismo. Esso esprime lo sradicamento delle masse contadine, la loro opposizione radicale all'ordine costituito, il loro rifiuto dei valori sociali dominanti. Inoltrarsi in una foresta, percorrere un sentiero isolato, varcare un passo di montagna, erano tutte circostanze molto pericolose nella società dell'alto Medioevo. Il bandito è il grande protagonista in decine di racconti dell'epoca, ed è protagonista anche quando non compare: l'incertezza nei viaggi, la paura del mercante e del pellegrino esprimono infatti un'ossessione molto diffusa e radicata.
La legge interveniva con grande brutalità per reprimere il fenomeno e la stessa severità delle pene indica la gravità della situazione: orecchi e nasi tagliati, pupille e lingue strappate, mani e piedi troncati, falangi schiacciate e in ultimo la pena di morte, erano i castighi più comuni nei confronti di chi si mostrava indocile o ribelle. La crudeltà della legge è del resto un aspetto tipico dell'intera società medievale.
Oltre a queste forme di resistenza esisteva anche un'opposizione di carattere prettamente spirituale, che si manifestava tra l'altro nel persistere della religione pagana in molte regioni d'Europa (il culto di Saturno è attestato per esempio in Italia fino alla fine dell'VIII secolo). La lotta di classe assumeva così le caratteristiche di una resistenza al cristianesimo, che per molti contadini finiva per identificarsi con la religione dei padroni (p. 75).
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