1.5 La rinascita delle culture indigene
La presenza della civiltà classica nel mondo è attestata da splendidi monumenti, acquedotti, ponti, templi costruiti con sfarzo nelle regioni del Nord Europa come nei deserti africani, sulle coste spagnole come su quelle del Mar Nero. In tutti i grandi centri urbani si parlava greco o latino e nessuno aveva il timore di non farsi capire. La religione pagana, poi, aveva un carattere "aperto", ed era cosa normale per un viaggiatore proveniente da Alessandria adorare la divinità principale di Antiochia, e viceversa. La stessa integrazione culturale tra le varie province dell'Impero era molto forte: capolavori della letteratura latina sono stati scritti da autori di origine africana, gallica o orientale: Ammiano Marcellino il quale fu, insieme a Tacito, il più grande storico dell'età imperiale romana, era un siriaco; Apuleio, l'autore delle Metamorfosi, era nato in una piccola città numidica. Anche le arti e le tecniche si esprimevano in un linguaggio uniforme, malgrado le differenze di clima, di tradizione, di talento.
Questa cultura solida e omogenea, per quanto brillante e vitale, era però un aspetto parziale del mondo antico; in molte regioni essa era soltanto una brillante superficie al di sotto della quale brulicava una realtà diversa, fatta di tradizioni molto più antiche della conquista romana, di culti mai completamente spenti, di forme artistiche certo meno raffinate ma pur sempre espressioni di una cultura autentica e ricca di suggestioni. La civiltà classica sommerse queste culture, le bloccò, le offuscò, ma non le distrusse del tutto. Essa fu infatti una
cultura urbana per eccellenza: la stessa parola civilitas, che ancora oggi usiamo quando diciamo "civiltà", deriva da civitas ("città-Stato"). Quando nel 212 l'imperatore Caracalla concesse la cittadinanza romana agli abitanti dell'Impero, precisò che tale concessione non riguardava i dediticii: con questo termine s'indicavano appunto le grandi masse contadine non toccate dalla romanizzazione: contadini dell'Egitto, dell'Africa, delle Gallie o di altre regioni, che nella civilitas romana non si erano integrati e che vivevano come estranei accanto ad essa, pur avendo le loro dimore magari a pochi chilometri da Cartagine o da Alessandria. In pieno II secolo - il secolo d'oro della storia romana - Sant'Ireneo, dovendo predicare la buona novella nei dintorni di Lione, splendida e importante città gallica, ricca di monumenti e di testimonianze della cultura latina, fu costretto a parlare in celtico: se avesse parlato in latino i contadini non lo avrebbero capito.
Oltre a essere urbana, la civiltà classica era
aristocratica, era cioè espressione diretta dei ceti dominanti. Gli storici moderni si sono più volte posti la domanda se la cultura classica fosse o meno accessibile alle masse. Questo interrogativo non manca di una certa ingenuità, dal momento che il problema non è scindibile da una riflessione sulle strutture economiche e sociali della civiltà antica, dalle caratteristiche di un modo di produzione dominato per secoli dalla manodopera schiavile.
La crisi del mondo antico fu anche crisi della sua cultura, della sua civilitas. Man mano che si sfaldavano l'amministrazione e l'esercito, man mano che la produzione appariva sempre meno in grado di sostenere l'enorme sforzo cui i terribili momenti delle invasioni chiamavano gli abitanti dell'Impero, la cultura classica cedeva davanti a forze spirituali nuove e più fresche. Le
culture indigene, tenute per secoli come il fuoco sotto la cenere, si risvegliavano e parlavano alle masse un linguaggio a loro più vicino.
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