9.5 Il comune
Monarchia e papato rappresentavano forme discendenti di governo. Ma non esprimevano l'unica modalità nell'organizzazione medievale del potere. Era presente anche una tendenza di segno opposto, in cui il potere derivava dal basso e nasceva dal consenso dei membri della comunità. Le comunità di villaggio, per esempio, pur dipendendo dal signore, dal re o dall'imperatore, dal vescovo o dal papa, avevano anche forme di autogoverno: gli abitanti decidevano l'uso delle terre comuni, dei boschi, dei pascoli, il momento dell'aratura, della semina, del dissodamento e così via (
10.4). La comunità di villaggio eleggeva inoltre gli individui incaricati di particolari compiti di sorveglianza. Forme di autogoverno in cui tutti i membri di un'associazione prendevano collettivamente decisioni riguardanti il gruppo erano anche quelle di carattere professionale (artigiani, mercanti, ecc.) (
10.5).
La forma più tipica di questa organizzazione del potere diversa da quella discendente era il
comune cittadino, che cominciò ad affermarsi nel quadro politico europeo dopo il Mille. Con il termine "comune" si indicano forme di autogoverno delle città, apparse in Germania, Inghilterra, Francia, Fiandra, e soprattutto in Italia, nate come associazioni private tra cittadini per affermare le proprie rivendicazioni nei confronti del signore, poi sviluppatesi fino a ottenere il riconoscimento da parte dell'autorità superiore (il signore, laico o ecclesiastico, il re o l'imperatore).
Il problema dell'origine dei comuni è stato tra i più dibattuti dalla storiografia moderna e intorno a esso si sono scontrate intere generazioni di studiosi. L'orientamento oggi prevalente rifiuta la ricerca di una causa unica, valida per tutti i momenti e per tutte le situazioni; si cerca piuttosto di analizzare, caso per caso, il processo che portò alla formazione degli organismi comunali e di tracciare una "tipologia" a partire da casi concreti. L'origine dei comuni, infatti, fu diversa nelle varie regioni europee e persino tra città geograficamente vicine si registrano talvolta differenze significative. Queste differenze dipendono da una pluralità di circostanze: i mutevoli rapporti intercorrenti, a livello locale, tra i feudatari, le monarchie (o l'Impero) e il papato, il grado di crescita e le caratteristiche dell'economia urbana, la composizione della classe dirigente cittadina. C'è tuttavia un elemento ricorrente: il comune si afferma sempre in contrapposizione esplicita o implicita alle vecchie autorità feudali, come espressione di forze sociali emergenti.
Queste forze sociali, dalla cui iniziativa ebbe origine il processo di formazione dell'autonomia comunale, furono i mercanti, gli artigiani, i liberi proprietari terrieri residenti in città, i gruppi familiari da cui venivano tradizionalmente reclutati gli ufficiali e gli addetti alle attività giuridiche e giudiziarie. Il comune poteva nascere sia dalla solidarietà tra queste componenti, sia dalla loro reciproca competizione e dal prevalere di una di esse.
Il comune, la cui diffusione in Europa si data dall'XI secolo in poi, non si formò (o si formò tardivamente e debolmente), nelle regioni economicamente più depresse, lontane dalle grandi correnti commerciali, e dove i poteri feudali erano più solidi. In linea generale si può affermare che l'autonomia del comune era inversamente proporzionale alla forza dei poteri feudali.
Le istituzioni principali del governo comunale erano i consigli, ai quali i cittadini partecipavano in misura più o meno ristretta; i consigli eleggevano i magistrati, che venivano denominati in vario modo; in molti comuni italiani prendevano il nome di consoli, con riferimento esplicito ai magistrati dell'antica Roma (il numero dei consoli comunali variava però enormemente, da poche unità fino a venti). Tanto nel consolato che nei consigli avevano la preponderanza gruppi di individui dotati di beni, di prestigio, di cultura: appartenevano a famiglie di origine feudale, insignite di titoli cavallereschi, oppure erano mercanti, o ancora esperti in legge.
Nell'organizzazione comunale i cittadini di pieno diritto erano una minoranza rispetto all'insieme della popolazione. Non ne facevano parte, oltre alle donne, la massa dei servi delle famiglie, dei lavoratori giornalieri, dei forestieri immigrati da poco, dei disoccupati che vivevano di espedienti; non ne facevano nemmeno parte le minoranze religiose, come gli ebrei.
L'Italia centro-settentrionale, dove le tradizioni di vita urbana si erano mantenute più forti e durature (
10.5), fu la regione d'Europa dove le forme di governo comunali si manifestarono prima e in modo più deciso. Firenze, Milano, Genova, Pisa, Venezia e tantissimi altri centri talvolta di dimensioni anche molto piccole, hanno, nel XIII secolo (
12.10), una vita politica vivace, che arricchisce e complica la situazione della penisola. Una prima distinzione per grandi linee si può fare tra la parte centrosettentrionale del nostro paese, dove la concentrazione dei comuni era molto alta, e la parte meridionale, dove era bassa, spesso inesistente. Nelle regioni meridionali i centri urbani erano poco numerosi, e rari erano quelli (come Napoli, Palermo, Bari) che avevano al loro interno gruppi di artigiani e mercanti attivi a livello internazionale. Le città del Sud erano spesso in mano a una forte aristocrazia locale che manteneva saldamente le proprie prerogative. Inoltre la presenza di una monarchia forte e accentratrice come quella normanna prima e quella sveva poi, spezzò spesso sul nascere qualsiasi velleità di autonomia cittadina. I comuni del Nord, al contrario, si trovavano in una situazione radicalmente diversa: dipendevano teoricamente dall'imperatore, perennemente diviso tra Italia e Germania e spesso lontano e assente. La loro volontà di autonomia era anche sostenuta e incoraggiata dal papato, che vedeva nei comuni un mezzo per indebolire ulteriormente la presenza dell'imperatore nella penisola. Come vedremo (
12.1), lo scontro tra i comuni e l'Impero si risolse, al tempo dell'imperatore Federico Barbarossa, con il trionfo della Lega lombarda, che raccoglieva le forze di numerosi centri urbani dell'Italia settentrionale. Questa situazione di autonomia e di frammentazione politica, di forza e debolezza al tempo stesso, caratterizzerà, come vedremo in seguito, quasi tutta la storia della nostra penisola fino al secolo scorso.
Rispetto, poi, alle esperienze comunali transalpine, i comuni italiani centro-settentrionali presentano alcune peculiarità loro proprie. Innanzi tutto, diversamente da quanto accadeva, per esempio, in Francia e in Germania, essi non restarono rigorosamente legati alla cerchia delle mura cittadine, isolati completamente dalle campagne dominate dai signori feudali. Del resto, in età tardoantica e altomedievale, nonostante la decadenza urbana si era mantenuto, grazie soprattutto alla persistenza dell'autorità temporale dei vescovi, il rapporto di subordinazione amministrativa delle campagne alle civitates. Nelle città italiane, inoltre, di norma fu cospicuo l'insediamento di piccoli e grandi feudatari che, spesso, furono protagonisti dell'ascesa delle istituzioni comunali mantenendo il controllo di vaste porzioni del territorio circostante: di qui la tendenza dei comuni italiani a estendere la propria autorità anche al di fuori delle mura, attaccando sia le comunità confinanti sia i territori dei signori feudali non inurbati. Si forma così uno spazio di irradiazione del potere politico del comune che viene definito contado.
Questa specifica situazione propria dell'Italia avrà alcune significative conseguenze.
In primo luogo, la presenza nelle città di una forte componente di nobiltà feudale rese il quadro sociale dei comuni italiani complesso e articolato, attraversato da tensioni tra consorterie nobiliari, tra piccola e grande nobiltà, tra aristocrazia militare e potentati economici, mercantili e bancari: donde la crisi, tra XII e XIII sec., delle istituzioni consiliari e consolari dei comuni e l'insediamento di un nuovo tipo di magistrato, il
podestà. I podestà, che venivano solitamente scelti tra individui esperti in campo politico, militare e giuridico, erano veri e propri professionisti nel loro mestiere: non erano rari i casi di podestà che giravano di comune in comune accompagnati da un seguito personale di notai, segretari, giudici, servi, scudieri, banditori e persino da uomini armati che svolgevano funzioni di polizia. Essi restavano mediamente in carica da sei mesi a un anno e alla scadenza erano sottoposti a un "sindacato" da parte di una commissione eletta dal consiglio cittadino che vagliava il loro operato.
In secondo luogo, i comuni italiani assunsero quasi subito la fisionomia di stati territoriali, per quanto di piccole dimensioni, con forti tendenze espansionistiche: ciò contribuì ulteriormente a disgregare la realtà politica italiana, alimentando un municipalismo esasperato. Infine, gli abitanti del contado assoggettato non godevano degli stessi diritti dei residenti in città e subivano un prelievo fiscale non meno esoso di quello dei signori feudali: se era vero che "l'aria di città rende liberi", lo stesso non poteva dirsi per coloro che continuavano a vivere nei villaggi. Anzi, nella fase di espansione del movimento comunale poteva risultare più accettabile la convivenza con il potere dei feudatari, laddove i contadini riunendosi nelle associazioni dei comuni rurali riuscivano a strappare patti scritti che regolavano le prestazioni dovute ai signori.
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