7. Le mentalità medievali
7.1 Uomini diversi da noi
Il Medioevo è, per tanti aspetti, l'epoca in cui affondano le radici del mondo moderno. In questo periodo sono nate le nazioni europee e hanno preso forma le lingue che oggi si parlano in Europa, hanno avuto origine gli Stati moderni e istituzioni come l'Università. Ma vedere nel Medioevo solo l'infanzia del mondo moderno sarebbe un errore perché ci farebbe smarrire un dato altrettanto importante: il Medioevo è anche un'epoca radicalmente diversa dalla nostra.
Questa diversità risalta subito, non appena ci poniamo la domanda seguente: che tipi di uomini erano quelli medievali, come si comportavano, come vedevano il mondo, la natura, che concezione avevano del tempo e dello spazio, del bene e del male? Rispondere a queste e ad altre domande vuol dire entrare in pieno in quel campo di studi che ha per oggetto le mentalità del passato.
La storia della mentalità ha un oggetto collettivo: cerca di rintracciare, servendosi degli strumenti offerti dall'etnologia, dall'antropologia, dalla sociologia, dalla psicologia, quello che è comune negli atteggiamenti e nei comportamenti degli uomini che ci hanno preceduto. Le idee di Dante, per fare un esempio, possono e devono essere studiate nella loro novità e originalità, ma non meno importante è analizzare tutto quello che le rende uguali alle idee dei contemporanei, inserendole in un contesto, in un sistema di relazioni. "Il livello della storia delle mentalità - è stato detto - è quello del quotidiano e dell'automatico... esprime ciò che hanno in comune Cesare e l'ultimo soldato delle sue legioni, San Luigi e il contadino del suo regno, Cristoforo Colombo e il marinaio delle sue caravelle".
Certo, penetrare nella mente di uomini che non esistono più è estremamente difficile, anche se in questo ci aiutano le testimonianze scritte e quelle figurate, le storie tramandate oralmente, e anche gli oggetti della cultura materiale (armi, strumenti, ecc.). Ma lo storico delle mentalità ha anche qualche vantaggio: può, per esempio, condurre le sue ricerche su periodi molto lunghi, a volte addirittura millenari. La mentalità, infatti, si trasforma lentamente, molto più lentamente della storia politica o economica: accade che gli uomini trasformino la loro economia, cambino la forma di governo e sovvertano i rapporti di classe, ma che il vecchio modo di pensare continui a vivere, quasi di vita propria.
La storia della mentalità tende a cogliere gli elementi "collettivi", ma sulla reale possibilità di raggiungere questo obiettivo occorre intendersi. I documenti utilizzati da chi studia le mentalità del passato, e in particolare dell'età medievale, sono, infatti, espressione dei ceti al potere, gli unici che detenessero il privilegio della scrittura; questi documenti esprimono di conseguenza i sentimenti, la visione del mondo, i valori di un'élite. Si trattava di una cultura egemone, che aveva quindi anche una forte circolazione e una grande capacità di penetrazione tra le masse popolari. Essa non circolava ovviamente in forma scritta, dal momento che la grandissima maggioranza della popolazione era analfabeta, ma oralmente, soprattutto tramite i sermoni, le prediche, l'attività evangelizzatrice degli uomini di Chiesa. Essa veniva anche proposta direttamente come modello, nello stesso comportamento pubblico dei signori. Sotto questi aspetti la mentalità dei ceti dominanti finiva per diventare realmente "collettiva", in quanto condivisa o accettata dall'insieme della popolazione. Ma ciò non deve portare a trascurare l'importanza della
mentalità popolare, che aveva pure una sua autonomia e che influenzava, in una certa misura, la cultura dei ceti alti.
Qui il compito dello storico diventa quanto mai arduo. L'analfabetismo delle masse popolari ha impedito, come si accennava, che questa cultura lasciasse testimonianze dirette. Quello che sappiamo sui sentimenti e sui comportamenti delle masse popolari ci è giunto pertanto attraverso il filtro di quella ristrettissima élite che deteneva il monopolio della scrittura. Lo storico, quindi, deve cercare di andare oltre questo filtro e di raggiungere lo strato sommerso della cultura popolare. Alcuni documenti consentono, più di altri, di illuminare, sia pur di una luce debole e riflessa, questo strato sommerso. Si tratta, in particolare, di opere destinate all'edificazione morale e religiosa delle masse, che si indirizzavano consapevolmente a un uditorio vasto: Vite di santi che raccontavano le imprese degli eletti di Dio, modelli per tutta la Cristianità; penitenziali, cioè manuali a uso dei confessori, in cui si inventariavano i peccati dei fedeli e si indicava la punizione prevista per ognuno di essi; descrizioni di viaggi nell'oltretomba, che mostravano agli uomini le pene che attendevano i peccatori e le ricompense che spettavano alle anime buone nell'aldilà; sermoni e trattati divulgativi, che spiegavano alle masse i princìpi fondamentali della teologia cristiana.
Tutte queste opere avevano alcuni elementi in comune. Erano scritte in forma semplice e diretta ed evitavano le preziosità dello stile e le parole dotte e ricercate. Anche se gli esemplari che oggi leggiamo sono scritti in latino, esse erano originariamente composte in lingua volgare (l'unica che il popolo comprendesse) oppure presupponevano una traduzione in volgare. Esse non trasmettevano un pensiero teologico profondo e raffinato, come quello che troviamo per esempio nei trattati di Abelardo o di Tommaso d'Aquino, ed evitavano le astrazioni e i ragionamenti di carattere generale. Miravano al concreto e rappresentavano immagini semplici, proponendo paragoni immediati, che rimandavano all'esperienza quotidiana dei fedeli. In queste opere - ha scritto lo storico sovietico Aaron Gurevic - "troviamo la realizzazione del grandioso tentativo di trasformare la dottrina cristiana da patrimonio di un'élite spirituale a concezione del mondo dei più ampi strati della popolazione europea. La dottrina cristiana, coltivata nei monasteri e nelle celle degli eremiti isolati dal mondo, in questi sermoni, nelle prediche e nei divertenti racconti su diavoli e santi, trovava accesso alla coscienza del popolo, che possedeva una sua tradizione culturale, quella del mito, dell'epos, del rituale pagano, della magia. Nella lotta per conquistare le menti e le anime degli uomini, lotta in cui la Chiesa era costantemente impegnata, opere di tal genere svolgevano il ruolo più attivo, erano i più importanti canali di comunicazione tra il clero e le masse e per loro tramite la Chiesa attuava il suo controllo sulla vita spirituale del popolo".
Nel momento in cui gli autori di questa letteratura di massa (nel senso - lo ripetiamo - che veniva diffusa alle masse, non che veniva letta dalle masse) si ponevano il problema di una trasmissione ai "semplici" e agli analfabeti, finivano spesso per utilizzare - proprio ai fini della comunicazione - elementi del patrimonio culturale del loro uditorio. È proprio questa interazione culturale, determinata dalla pressione dell'uditorio sugli autori, che offre allo storico la possibilità d'intravedere la mentalità popolare.
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