1.3 Demografia e insediamenti
Durante le invasioni si affermò una tendenza già ampiamente presente nel tardo Impero: lo spopolamento del continente europeo, che toccò il suo acme tra il VI e il VII secolo. Le stragi e le carestie e le epidemie che si accompagnarono alle bellicose migrazioni dei popoli furono una delle ragioni della crisi demografica attraversata dall'Europa in quei secoli, specie se si pensa all'esodo in massa che a volte precedeva l'arrivo dei barbari e all'insufficiente ricambio di popolazione che questi ultimi rappresentavano: secondo calcoli approssimativi ma non troppo lontani dal vero, i germani installatisi in Occidente furono solo un milione, su una popolazione globale di 16 milioni di abitanti. A ciò si aggiungeva una situazione critica di fondo, che aveva radici nella crisi economica degli ultimi secoli dell'Impero e che aveva ridotto vaste zone dell'Europa a lande desolate e semiselvagge. I dati che ricaviamo dalle necropoli europee sono eloquenti: vivere fino a sessant'anni in questo periodo era un avvenimento raro (l'età media si collocava tra i 19 e i 29 anni); la mortalità nella primissima infanzia era altissima: su 12 bambini sepolti in un cimitero della Francia del Nord, 9 erano morti prima di raggiungere i 10 anni. La povertà spingeva inoltre le famiglie contadine all'infanticidio e alla limitazione delle nascite.
La fame, il freddo, la paura erano le inseparabili accompagnatrici del contadino. Costretto a vivere su una terra quasi sempre infeconda e semiselvaggia, con i campi lasciati a maggese per uno, due, tre, a volte dieci anni, affinché riposando rigenerassero spontaneamente i propri elementi di fertilità, quando seminava un chicco di grano non poteva sperare di raccoglierne più di tre. La sua dieta era a base di pane, ma quando il pane non c'era si accontentava di erbe e radici strappate qua e là, nei boschi o lungo le rive dei fiumi. A volte, quando la terra inzuppata di piogge eccessive impediva le arature autunnali o i temporali infradiciavano le messi, alla consueta penuria si aggiungevano le carestie mortali.
I grandi proprietari - fossero essi aristocratici germanici, romani oppure vescovi - subivano questa situazione con conseguenze meno drammatiche. Erano assillati però dal problema della manodopera agricola, sempre più rara a trovarsi; e ciò incoraggiava in maniera preoccupante la diffusione della schiavitù. La gravità del fenomeno è testimoniata da disposizioni come quella emanata nel 541, che proibì agli ecclesiastici di partecipare a razzie per la cattura di uomini liberi. D'altra parte, la Chiesa, pur auspicando un trattamento più umano per gli schiavi, raccomandava agli amministratori delle proprietà ecclesiastiche di non liberare gli schiavi delle tenute ricevute in dono o in eredità: "È ingiusto - dicevano i vescovi - che gli schiavi godano la libertà, mentre i monaci lavorano la terra tutto il giorno".
La crisi demografica colpì duramente anche le città. Se in Oriente continuavano a esistere popolazioni urbane di oltre 100.000 abitanti (per esempio a Costantinopoli, Antiochia, Alessandria), Roma, che nel IV secolo contava un milione di abitanti, tre secoli dopo ne aveva appena 25.000. La superficie di Bologna, per fare un altro esempio, passò da 75 a 20 ettari. Milano, conquistata dagli ostrogoti nel 539, subì una terribile punizione: la popolazione fu massacrata, le donne vendute come schiave, l'intera cinta muraria, che abbracciava 135 ettari, fu rasa al suolo.
Le invasioni germaniche - come abbiamo visto - accentuarono anche un'altra tendenza già presente nel tardo Impero, quella dei grandi proprietari a trasferire la propria residenza in campagna. La conseguenza più grave di questo fenomeno fu che essi automaticamente si trascinarono dietro una parte delle categorie produttive delle città. I mercati, le botteghe artigiane, le rivendite dei commercianti, prima concentrate nei centri urbani, si sparsero ora nei villaggi agricoli; e così le manifatture. Molte città finirono per perdere anche le loro guarnigioni militari, gli uffici amministrativi, i tribunali statali.
Non persero però il loro
vescovo. E fu proprio la presenza costante del vescovo ad assicurare la continuità e la sopravvivenza delle città nel Medioevo. Egli era l'espressione diretta della comunità che lo aveva eletto e riassumeva in sé i simboli dei pubblici poteri e della vita civile. Risiedeva nel centro urbano, dove si ergeva la chiesa cattedrale, vi amministrava i beni ecclesiastici, vi svolgeva funzioni giudiziarie. Soprattutto, garantiva il primato religioso della città sul territorio circostante: era in città che si svolgevano i riti più importanti, era lì che si veneravano le reliquie dei santi. Mentre gli edifici pubblici, gli acquedotti, le abitazioni private si logoravano e decadevano, fiorivano le cattedrali, le chiese, gli oratori.
La decadenza del mondo romano segnò ovunque il declino del suo paesaggio agrario, stravolto dallo spopolamento, dalle devastazioni dei barbari, dai continui saccheggi dei briganti: terre dissodate, disboscate, bonificate da secoli, caddero in abbandono, furono soffocate dalle erbe, dagli arbusti, dalle foreste. La trasformazione del paesaggio aveva però anche un'altra causa, che affondava le sue radici nel modo stesso di vita degli invasori, allevatori seminomadi che vivevano di rapina, praticavano l'allevamento brado dei suini, degli ovini, dei cavalli, oltre a un'attività agricola povera e precaria. La loro era un'economia del saltus, della selva, del pascolo brado, della caccia; la stessa che aveva caratterizzato l'Europa prima dei romani. Quello dei germani era un sistema agronomico a
campi aperti, in cui nessun segno stabile - vie, fossi, canali, siepi - segnava i confini dei terreni coltivati, e in cui l'allevamento era strettamente integrato all'agricoltura; in cui, in altre parole, lo spazio pastorale e lo spazio del campo si compenetravano.
Ogni sistema agronomico è in stretto rapporto con le usanze alimentari delle popolazioni che lo praticano. Nessuna società si limita ad accettare passivamente ciò che la natura le offre; gli uomini, al contrario, lottano col suolo e col clima per procurarsi quegli alimenti che le loro tradizioni e i loro riti prescrivono e impongono; nella vita dell'uomo il modo di mangiare è tra le cose che cambiano di meno. L'impatto tra romani e barbari fu anche, com'è stato giustamente detto, uno "scontro di tradizioni alimentari". La diffusione della colonizzazione romana in Europa aveva significato la diffusione dell'alimentazione tipicamente mediterranea: pane, carne, vino, olio, legumi. Il pane e il vino in particolare, si associavano ovunque con il prestigio e il modo di vita della civiltà classica. Eloquente, al riguardo, il disgusto provato dal vescovo Sidonio Apollinare (seconda metà del V secolo) per quei barbari che puzzavano di burro e di cipolla. Ma la rivincita della natura selvaggia sull'ager portò in primo piano, nell'alimentazione europea, i prodotti del saltus: la cacciagione, la pesca, il miele, il lardo; parallelamente cereali di qualità inferiore, come il farro, la spelta, la segale, il miglio, il panico, s'imponevano su qualità superiori, come il frumento, che necessitavano di cure più attente.
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