6.6 Il Sacro Romano Impero
Quel giorno era in corso nella basilica di San Pietro una solenne cerimonia liturgica; durante il rito, mentre Carlo pregava in ginocchio, il pontefice Leone III (795-816) tra la sorpresa di tutti, pose sul suo capo una corona d'oro e proclamò: "A Carlo, l'augusto incoronato da Dio, grande e pacifico imperatore dei romani"; subito dopo la folla dei guerrieri franchi acclamò il nuovo imperatore. La formula "imperatore dei romani", riservata all'imperatore d'Oriente, non era mai stata applicata prima di allora a nessun re occidentale, goto, longobardo o franco che fosse. L'evento era quindi sorprendente: sul piano formale il regno franco si trasformava da quel momento in Sacro Romano Impero, cioè in un'istituzione pari per dignità a quella con sede a Costantinopoli, ma con in più qualcosa che a quest'ultima mancava: la consacrazione papale.
Il biografo di Carlo, Eginardo, che era ben informato su tutte le faccende di corte, afferma che il re non sarebbe certo entrato in San Pietro quel giorno se avesse conosciuto le intenzioni del pontefice. Alcuni storici moderni hanno messo in dubbio la veridicità di questa affermazione. In realtà, come sostengono altri, non è un buon metodo quello di contestare una fonte contemporanea quando non c'è nessun motivo valido per farlo. In questo caso, le parole di Eginardo sono peraltro rafforzate dal fatto che sul piano concreto l'incoronazione di Natale giovò molto più al papa che al nuovo imperatore.
Innanzi tutto bisogna tener conto degli eventi che avevano preceduto l'arrivo di Carlo e della sua corte a Roma. L'anno prima, infatti, cioè nel 799, papa Leone III era stato ferito e fatto prigioniero durante un tumulto scatenato da una delle fazioni aristocratiche romane; era poi riuscito a fuggire e aveva chiesto udienza a Carlo per spiegargli le sue ragioni e invocarne l'aiuto. Il re, che stava per muovere contro i sassoni, accettò di far accampare il suo esercito a Paderborn, dove rimase parecchi giorni a colloquio con Leone. Quindi annunciò ai romani che il papa sarebbe tornato a Roma scortato da truppe armate e accompagnato da dieci dignitari franchi - sette vescovi e tre conti - i quali avrebbero istruito e presieduto un processo nel quale ognuna delle due parti avrebbe potuto esporre le proprie ragioni. Processo che fu regolarmente tenuto e che si concluse con un verdetto di colpevolezza contro i responsabili della rivolta, anche se non risulta che la sentenza sia mai stata eseguita. Infine Carlo promise che l'anno dopo sarebbe giunto a Roma di persona per trascorrervi appunto quella fatidica notte di Natale.
La cronaca di questi avvenimenti ha un valore ben più importante di quello di un semplice aneddoto. Ne emerge infatti, innanzitutto, che il papa era ancora ai primi passi del faticoso cammino verso il primato spirituale sull'intero mondo cattolico, altrimenti non si sarebbe certo sottoposto al giudizio dei vescovi franchi; in secondo luogo ne risulta un'altra caratteristica che il papato avrebbe mantenuto ancora per secoli: i suoi legami strettissimi con la situazione particolare della città di Roma, dove fazioni aristocratiche rivali - che traevano motivo di potenza e di orgoglio dalle loro antichissime origini - determinavano spesso l'elezione di un papa piuttosto che di un altro oppure ne contestavano violentemente la signoria temporale sulla città e sui territori circostanti. Quella volta, ad esempio, le accuse mosse a Leone III dovevano essere pesantissime se Carlo, invece che riportarlo semplicemente sul suo seggio con le armi, preferì sottoporre la questione a un tribunale: fra queste accuse sembra che ci fossero quelle di adulterio e di spergiuro, ma il nocciolo della questione era certamente che l'aristocrazia non accettava i continui interventi che - sin dai tempi di Gregorio Magno - i papi facevano nelle questioni di governo e nella conduzione politica della città. Contemporaneamente, però, non va dimenticato che il monaco Alcuino, consigliere ascoltatissimo di Carlo, indusse il re a intervenire con queste parole: "A nessun patto si può trascurare la salvezza della capitale. Ben più sopportabile è se fanno male i piedi, che non se è la testa che duole". I piedi erano i sassoni ribelli; la testa era Roma. Nelle coscienze contemporanee l'importanza della sede papale, anche se non era completamente chiara, si stava quindi facendo strada in maniera decisa.
In questo complesso gioco di spinte e controspinte, si può capire la genialità politica del gesto compiuto da Leone III a San Pietro. Quel papa, umiliato da un processo e minacciato dalle fazioni aristocratiche, diventava improvvisamente colui che incorona gli imperatori. Il prestigio che gliene derivava all'interno delle mura di Roma era, sul momento, notevole, ma enormi conseguenze avrebbe avuto in futuro, quando questa prassi sarebbe diventata necessaria a qualunque sovrano per cingere la corona del Sacro Romano Impero. La formula dell'incoronazione, inoltre, tagliava i ponti con le pretese di supremazia religiosa che da sempre gli imperatori bizantini accampavano sulla cattedra episcopale di Roma, e sostituiva quei protettori, lontani e inefficienti sul piano dell'aiuto concreto, ma sempre pronti a dettar legge in materia dottrinale, con i re franchi, per ora rispettosissimi del primato spirituale del papa e pronti a mettere la propria spada al suo servizio.
Ma si può anche comprendere bene il furore di Carlo dopo la cerimonia del Natale dell'800. Il papa aveva infatti capovolto il protocollo in vigore a Bisanzio e che prevedeva prima l'acclamazione della folla e dell'esercito, e poi l'incoronazione da parte del patriarca. Ponendo la corona sulla testa del sovrano prima dell'acclamazione, il pontefice aveva in sostanza affermato che ogni potere derivava da Dio per il tramite del suo intermediario. L'indipendenza dell'imperatore era stata ufficialmente negata.
Carlo fu danneggiato anche sotto un altro profilo: l'incoronazione provocò infatti un forte risentimento a Bisanzio, che la considerò come l'usurpazione, da parte di un barbaro, di un titolo di cui essa era depositaria: gli attriti che covavano sotto la cenere sin dall'epoca in cui i franchi avevano invaso i territori longobardi, minacciando da vicino i possedimenti bizantini in Italia, esplosero sull'onda di questa nuova tensione e sfociarono in una guerra che fu combattuta nel Veneto, in Istria e in Dalmazia con particolare durezza, anche se quando si concluse, nell'812, la situazione territoriale dei due Stati era sostanzialmente immutata. In cambio di alcune cessioni territoriali, Carlomagno ottenne dai bizantini il riconoscimento del titolo di "imperatore e augusto" ma non quello di "imperatore dei romani".
Carlo stesso si accorse subito dei pericoli contenuti nel gesto del papa. Sebbene la sua capitale,
Aquisgrana, fosse chiamata da allora in poi "Nuova Roma" nei documenti ufficiali egli non usò mai la formula "Impero romano", ma sempre "Impero franco e cristiano". Inoltre, quando nell'813 associò al trono il figlio Ludovico il Pio (813-40), lo fece acclamare dai franchi, senza ricorrere alla consacrazione pontificia. Ma ormai il dado era tratto e quella storica iniziativa del vescovo di Roma sarebbe rimasta una tappa fondamentale nel gioco degli equilibri europei.
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