12.10 I comuni italiani nel XIII secolo
Parallelamente alla tormentata vicenda degli svevi in Italia, nella seconda metà del XIII secolo la vita politica all'interno dei comuni italiani risente in modo vistoso delle trasformazioni sociali indotte dallo sviluppo delle attività commerciali, manifatturiere, bancarie.
Nell'XI e XII secolo i consigli e i magistrati dei comuni erano stati monopolio di una ristretta oligarchia formata dai mercanti più ricchi e in vista e, soprattutto, da esponenti della nobiltà feudale di inurbamento più o meno recente: una oligarchia (convenzionalmente definita dei magnati) che, sul piano dello stile di vita, aveva progressivamente assunto i tratti di un gruppo dirigente socialmente omogeneo (
10.6), benché diviso da feroci lotte di fazione per il predominio nelle istituzioni di governo. Nel XIII secolo questa situazione tende a modificarsi a causa della maturazione di un ceto relativamente ampio di imprenditori, mercanti, professionisti (convenzionalmente definiti popolo grasso, cioè ricco) e di bottegai e artigiani (convenzionalmente definiti popolo minuto) che, attraverso l'organizzazione delle Arti o Corporazioni, esercita una forte pressione per acquistare peso nella gestione degli affari del comune. È peraltro essenziale sottolineare che questi nuovi protagonisti della vita politica nei comuni rappresentano sempre e comunque una minoranza rispetto al complesso della popolazione residente nella città: gli operai salariati, i piccoli venditori al minuto, i numerosissimi servi domestici non si affacciano in alcun modo sulla scena; tanto meno gli abitanti del contado, completamente emarginati e sottoposti a un duro prelievo fiscale.
Il relativo ampliamento del quadro sociale e politico e il conseguente stato di tensione interna, riscontrabili in pressoché tutte le principali città del Nord e del Centro della penisola, sortirono tuttavia effetti molto diversi a seconda delle situazioni e si intrecciarono con la contrapposizione tra guelfi filo-papali e ghibellini filo-imperiali, anche se queste denominazioni si ridussero sempre più a sigle convenzionali per definire i "partiti" in lotta per il potere (
8.8).
Milano nel corso del XIII secolo si afferma come principale centro di produzione tessile e metallurgica dell'Italia settentrionale e come nodo di primaria importanza nella corrente di traffici verso l'Europa centrale; di qui anche una aggressiva politica di espansione ai danni delle città limitrofe e, più in generale, di egemonia nell'area lombarda. La nascita e la crescita, a Milano, della Motta, organizzazione corporativa del "popolo grasso", e della Credenza di Sant'Ambrogio, organizzazione corporativa del "popolo minuto", pur ponendo delle limitazioni ai privilegi della nobiltà feudale che egemonizzava il potere, non trasformò in maniera decisiva il tono della vita politica. Infatti, il governo rimase costantemente disputato tra le due fazioni aristocratiche dominate dai Torriani, "guelfi" e "popolari", e dai Visconti, "ghibellini" e favorevoli ai "magnati": non si uscì, dunque, sostanzialmente da un modello di gestione oligarchica del governo. Alla fine del secolo, i Visconti saranno signori della città (
17.3).
Firenze, durante il XIII secolo, conosce una fase di straordinario sviluppo sia come centro di produzione e commercio tessile, sia come centro d'affari bancari, e muove i primi passi verso l'egemonia politica e territoriale di tutta l'area toscana, secondo un progetto che verrà realizzato alla fine del XIV secolo (
17.4). Nel comune fiorentino il "popolo grasso", riunito nelle Arti maggiori, e il "popolo minuto", riunito nelle Arti minori, riuscì - come in molte altre città - a far sentire inizialmente la sua voce grazie alla alleanza con una delle fazioni "magnatizie": nel 1250 appoggiò, infatti, gli aristocratici guelfi nella espulsione del rivale gruppo ghibellino e ottenne i cosiddetti Ordinamenti del primo popolo che si sovrapponevano ai poteri del vecchio consiglio cittadino e del podestà, con l'istituzione di un nuovo consiglio, gli Anziani del popolo, e di un nuovo magistrato supremo, il capitano del popolo. Nel 1260 la situazione fu capovolta a seguito del rientro dei fuoriusciti ghibellini, dopo la battaglia di Montaperti (
12.9), cui fece seguito l'annullamento degli Ordinamenti del primo popolo; ma anche questo fu un successo di breve durata, poiché la drammatica fine di Manfredi nella battaglia di Benevento (1266) riconsegnò la città ai magnati guelfi che ridimensionarono bruscamente anche lo spazio politico dei "popolari". Di qui una tormentata fase di conflittualità intestina che culmina in un fallimentare tentativo di mediazione pontificia, nel 1280, e nella riorganizzazione del governo cittadino, nel 1282, attorno al consiglio dei sei priori delle Arti, espressi dalle Arti maggiori, che prendono così il sopravvento, ponendosi come forza politica intermedia tra "magnati" e "popolo minuto".
Questo trionfo del "popolo grasso" fu contrastato da una controffensiva dei magnati, le cui tradizioni militari ebbero occasione di mettersi in luce con l'apertura di più fronti di guerra, con Pisa, Siena, Arezzo, nonché dalle conseguenti difficoltà finanziarie del comune fiorentino. Ma a Firenze - diversamente dal caso milanese - la forza acquisita dal ceto mercantile e finanziario più elevato non consentiva di riportare il controllo della vita politica nelle mani della oligarchia magnatizia: nel 1293, furono promulgati gli Ordinamenti di giustizia che prevedevano l'espulsione, o la privazione dei diritti politici, dei principali casati magnatizi, allargavano il novero delle Arti cui spettava l'elezione dei priori, istituivano la magistratura del gonfaloniere di giustizia cui spettava il compito di reprimere - con una forza armata di duemila uomini - ogni attentato contro il governo "popolare". Un ulteriore tentativo di reazione magnatizio ottenne, nel 1295, l'esilio del promotore della riforma, Giano della Bella, ma gli Ordinamenti restarono sostanzialmente intatti. Né furono modificati a seguito della spaccatura dei guelfi fiorentini nelle due fazioni dei Bianchi e dei Neri. Se questi ultimi, capeggiati dagli aristocratici Donati, riuscirono a sconfiggere ed esiliare, nel 1302, gli avversari - tra i quali Dante -, capeggiati dai "popolari" Cerchi, ciò non comportò alcun mutamento costituzionale: le due fazioni, infatti, non esprimevano la contrapposizione tra magnati e "popolari", ma semplicemente la concorrenza di due gruppi antagonisti, al loro interno eterogenei, per la supremazia nel governo della città.
Milano e Firenze costituiscono due casi esemplari di una profonda trasformazione del corpo sociale che interessò nel XIII secolo la gran parte dei comuni dell'Italia centro-settentrionale: a Milano, l'ascesa economica di nuovi ceti mercantili e imprenditoriali condizionò ma non modificò radicalmente l'impostazione della vita politica cittadina; a Firenze, invece, il rivolgimento politico fu profondo, con la stabilizzazione di un assetto costituzionale che premiava le forze sociali economicamente emergenti. Venezia costituisce, invece, un caso a sé stante, benché anch'esso parzialmente riconducibile all'orizzonte politico dell'Italia centro-settentrionale del XIII secolo.
La città lagunare, infatti, costituiva una nuova fondazione protesa esclusivamente sul mare e priva di significativi possessi territoriali sulla terraferma: di conseguenza il problema del confronto tra l'aristocrazia feudale inurbata e il "popolo grasso", che caratterizzava le vicende milanesi e fiorentine, a Venezia non ebbe occasione di maturare; sin dalle origini, l'"aristocrazia" veneziana fu composta dalle famiglie che avevano conquistato prestigio e ricchezza attraverso l'esercizio del commercio e della marineria. Questa aristocrazia degli affari ebbe inizialmente come obiettivo politico fondamentale il controllo dell'elezione del doge, il magistrato supremo, al fine di impedire che la carica venisse monopolizzata da un unico gruppo familiare e trasmessa ereditariamente. A tal fine il Maggior consiglio, l'organo consiliare espresso dalle famiglie più ricche e in vista, alla metà del XII secolo conquistò il diritto di designare i candidati al dogato: era il primo passo della definizione di un sistema di individuazione del massimo magistrato che, alla fine, prevedette una complessa procedura di formazione, per selezione e per sorteggio, di una commissione del Maggior consiglio che proponeva all'assemblea dei cittadini la ratifica di un candidato; ciò rendeva estremamente difficile il sorgere di forti poteri personali o di consorterie ristrette.
Anche a Venezia, tuttavia, lo sviluppo economico dei secoli XI e XII produsse difficoltà politiche, in qualche modo comparabili a quelle di altri comuni italiani. Nel XIII secolo, e in particolare dopo lo straordinario successo veneziano nel pilotare e sfruttare la quarta crociata (
11.6), la stratificazione sociale ed economica della città si ampliò in virtù della formazione di molti "nuovi ricchi", i quali premevano per avere accesso al Maggior consiglio. La risposta della vecchia classe dirigente veneziana fu assai dura. Nel 1297 si verificò la cosiddetta Serrata del Maggior consiglio: si stabilì che solo un certo numero di famiglie - ovvero quelle che negli ultimi quattro anni avevano avuto loro esponenti nel Maggior consiglio - potessero essere iscritte nel "Libro d'oro" e accedere all'organo consiliare principale. Ciò impose di fatto alla guida della città una oligarchia che si riproduceva ereditariamente, e limitava sia il potere del doge sia ogni possibile processo di rinnovamento politico. Questa formula ebbe successo poiché il "patriziato" veneziano, pur sempre formato da famiglie fortemente impegnate nelle attività commerciali, fu molto attento a difendere gli interessi economici della città lagunare in tutto il Mediterraneo e assicurò una stabilità interna che giovò indubbiamente allo sviluppo del tessuto economico cittadino.
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