17. L'equilibrio italiano
17.1 Declino del comune
Con la morte di Federico II e la successiva crisi del potere imperiale era tramontata, in Italia, la possibilità di dar vita a uno Stato unitario, sull'esempio della monarchia francese o di quella inglese. Le principali forze che avevano ostacolato il tentativo dell'imperatore di estendere il suo dominio nella penisola erano state - come si ricorderà - il papato e i comuni. Nel corso della seconda metà del XIII secolo e durante tutto il XIV, ambedue queste forze apparvero a loro volta toccate da un accentuato declino che le rendeva incapaci di esprimere alti livelli di aggregazione politica. Il papato, umiliato dallo scontro tra Filippo il Bello e Bonifacio VIII, aveva trovato ad Avignone una culla dorata sotto la protezione dei re di Francia e non appariva nemmeno in grado di tenere sotto controllo le terre del Patrimonio di San Pietro in Italia: piccoli e grandi signori locali si contendevano queste terre in un brulicare di lotte e di scontri, come se sopra la loro testa non ci fosse nessuna autorità alla quale render conto. Quanto ai comuni, si può dire che la loro situazione di crisi politica fosse addirittura congenita al loro assetto interno.
La principale debolezza del comune stava nella sua incapacità di allargare la partecipazione del popolo, inteso come insieme degli abitanti, alla vita politica. Si pensi che in una città come Firenze, alla metà del XIV secolo, su un insieme di 80.000 abitanti, quelli teoricamente eleggibili alle cariche pubbliche non superavano il numero di 3500, e quelli che effettivamente avevano un ruolo di qualche peso nella vita politica erano solo poche centinaia. In altri comuni questa proporzione era ancora più ristretta. Conseguenze particolarmente gravi ebbe la mancata integrazione della popolazione del contado, considerata dalla legge quasi come inferiore per natura ed esclusa, quasi ovunque, dai diritti politici. Prima la crescita della popolazione urbana in conseguenza della ripresa economica (capitolo 10) poi le aspre tensioni sociali scatenate dalla crisi del '300 (capitolo 15), resero ancora più drammatico il contrasto tra l'insieme della popolazione, composto da una grandissima maggioranza di emarginati dalla vita politica, e il gruppo ristretto di coloro che, per ricchezza o per privilegio, avevano la possibilità di partecipare, in vario modo, al governo della città.
La mancata evoluzione del comune verso forme di più completa organizzazione statuale si deve anche alla forza che nelle città avevano altri gruppi di potere, nei quali i rapporti tra i membri erano prevalenti su qualunque altro vincolo, compreso quello esistente tra i cittadini del comune stesso. Anzitutto i vincoli di famiglia: in ogni città italiana grandi famiglie di antica tradizione nobiliare, o famiglie più recenti, affermatesi tramite un rapido successo economico, costituivano tante cellule dirompenti del tessuto politico. Le loro stesse dimore, vere e proprie fortezze dotate di torri e protette da uomini armati, mostravano, anche materialmente, l'esistenza di centri di potere autonomi e in concorrenza reciproca. Intorno a queste dimore gravitava la massa dei clienti, composta da piccoli artigiani e da poveri che vivevano all'ombra dei potenti. Altri centri di potere erano le Corporazioni, che richiedevano ai loro appartenenti giuramenti di fedeltà e disponevano talvolta di vere e proprie milizie private.
L'esistenza di questi centri di potere, che conferivano al comune l'aspetto di un mosaico di interessi e di sentimenti contrapposti, configurava una pluralità di fazioni, l'una in lotta contro l'altra. Le fazioni non erano gruppi politici che cercavano di prevalere pacificamente su altri gruppi per realizzare un preciso programma di governo, un disegno politico che esprimesse un'articolata visione della società. Certamente i motivi economici e sociali non erano assenti nella lotta tra le fazioni, ma essi non erano gli unici, né quelli prevalenti: le tradizioni familiari, le simpatie personali, le clientele, l'appartenenza a una determinata contrada o a una determinata "Arte" erano tanti fattori che contribuivano a dividere e a contrapporre i cittadini.
La conflittualità radicata nella vita politica comunale portò a situazioni di vera e propria ingovernabilità, con i magistrati impotenti e i consigli lacerati da lotte feroci che avevano, spesso, una prosecuzione armata nelle vie e nelle piazze. Il prevalere di una fazione comportava, inoltre, per gli sconfitti, tutta una serie di punizioni, dalla morte all'esilio, alle confische; la successiva rivalsa degli sconfitti scatenava fatalmente la vendetta, in un gioco a catena che sembrava senza fine.
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