18.6 La storia e la politica
Come si è detto all'inizio di questo capitolo, la straordinaria fioritura intellettuale e artistica dell'Umanesimo e del Rinascimento coincise con un periodo di stagnazione economica e di crisi politica. Il fallimento della politica dell'equilibrio e l'invasione dell'Italia da parte di potenze straniere provocò, nella riflessione degli storici e dei pensatori più attenti al corso delle vicende umane, una forte inclinazione al pessimismo. Nei pensatori di più alto livello, come i due fiorentini
Niccolò Machiavelli (1469-1527) e
Francesco Guicciardini (1483-1540) questo pessimismo portò a una lucida indagine sui veri moventi che - al di là di qualsiasi illusione e di qualsiasi ideale - guidano, in politica, l'operare degli uomini.
La Storia d'Italia (1537-40) di Francesco Guicciardini, ambasciatore della Repubblica fiorentina e politico di altissimo livello, mostra la grandissima maturità raggiunta dal pensiero storico rinascimentale. Guicciardini esamina ogni fatto e ogni circostanza alla luce di una prospettiva critica complessa, che non tralascia mai di connettere il particolare al quadro d'insieme. Per lui la storia non è - come era stata nel Medioevo - elencazione di fatti e esaltazione di uomini e città, ma spiegazione intellegibile delle vicende umane. La sua convinzione di fondo è che gli uomini siano inevitabilmente preda del male e che i loro comportamenti siano dominati da motivazioni non ragionevoli: da qui il suo frequente ricorrere a spiegazioni psicologiche. Secondo Guicciardini la realtà umana non è interpretabile in base a regole generali, perché il suo carattere di fondo è una perenne mutevolezza: allo storico come al politico resta solo la possibilità di esaminarla caso per caso.
Più sistematica e di maggiore respiro è la visione storica di Niccolò Machiavelli. Egli cercò di individuare alcune leggi immutabili che a suo avviso governano da sempre la storia umana. La storia è chiusa entro una serie di percorsi obbligati determinati dal carattere ciclico delle forme politiche e degli avvenimenti e dalla perennità di alcuni comportamenti umani: in politica, gli uomini sono guidati soltanto dal proprio interesse, e anche quando lo ammantano dei più alti ideali, non conoscono la generosità, sono corrotti e "tristi". In queste forme perenni e collettive dell'agire umano è escluso ogni intervento divino, perché esse sono esclusiva espressione della natura umana. Allo storico, come al politico, non resta altro che prenderne atto.
Ma prenderne atto non significa rinunciare alla lotta e all'azione: forte della comprensione delle leggi che presiedono all'agire umano, il politico deve agire in modo coerente, mirando in primo luogo al bene dello Stato. Egli riesce in tal modo a opporsi efficacemente persino alla Fortuna, un termine che ricorre spesso in Machiavelli e in altri autori dell'epoca per indicare le imprevedibili contingenze che contrastano l'azione dell'uomo.
La virtù del politico non consiste in una morale astratta e irrealizzabile, o in princìpi di ordine religioso, che lo porterebbero dritto al fallimento, ma in questa intelligenza dei comportamenti umani, che gli consente di anticipare le azioni altrui e quindi di prevalere. Il politico dovrà essere, a seconda della circostanza, "golpe" e "lione", volpe e leone, astuto e forte, dissimulatore e crudele, violento e moderato, pur di difendere lo Stato. Non è vero, come spesso si ritiene, che la visione machiavellica (il cosiddetto machiavellismo) sia priva di valori etico-sociali. Machiavelli si limitò a constatare l'assenza di regole morali nelle leggi perenni che regolano l'agire politico dell'uomo. Al tempo stesso egli esaltò tuttavia la "virtù" intesa come capacità di un capo politico di difendere e far prosperare lo Stato. Questa concezione emerge chiaramente nella sua opera più famosa, Il Principe (1513), in cui la figura del principe - cioè la figura del dinasta o del signore, che dominava allora la scena politica italiana ed europea - è delineata come quella più adatta ad assicurare il migliore svolgimento della vita associata: non più responsabile di fronte a Dio, e svincolato dagli obblighi di una morale estranea alle leggi della politica, il principe era però impegnato nel fine supremo di assicurare il bene dello Stato.
Nel momento stesso in cui rifiutava la presenza divina nelle azioni umane e il peso di norme etiche e religiose nella vita politica, Machiavelli era portato ad assumere posizioni critiche nei confronti della Chiesa cattolica e del cristianesimo. Alla religione cristiana egli rimproverava di aver "effeminato il mondo", vale a dire di aver indebolito a tal punto la società umana, da renderla preda di "uomini scellerati", i quali la dominano e se ne servono perché capiscono che la gente "per andare in paradiso, pensa più a sopportare le sue battiture che a vendicarle". Quanto alla Chiesa, Machiavelli le rimproverava soprattutto di aver ostacolato qualsiasi forma di organizzazione unitaria in Italia.
Alla fiacchezza del cristianesimo Machiavelli contrapponeva la forza del paganesimo, che cementava la struttura sociale delle città antiche. Da buon umanista, Machiavelli cercò i suoi modelli nell'antichità, e la storia di Roma - da lui analizzata in particolare nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio - gli apparve come una specie di laboratorio entro il quale si riassumono le infinite esperienze che vennero dopo Roma.
L'esperienza del politico, la riflessione dello storico, lo spirito scientifico di chi cerca nei comportamenti umani la presenza di leggi "naturali" si saldavano, nell'opera di Machiavelli, in una visione di grande coerenza, che è alla base della riflessione politica moderna.
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