16.7 Le risorse dello Stato
Secondo la tradizione medievale il sovrano doveva trarre unicamente dalle terre di sua diretta proprietà i mezzi di finanziamento della propria famiglia, della corte, degli apparati amministrativi, dell'esercito. I profitti delle aziende regie, i mulini, le foreste, i dazi percepiti sulle merci, i pedaggi, le ammende inflitte dai tribunali, le monete coniate dalle sue zecche: erano queste le principali fonti di reddito di un sovrano medievale. La potenza del re era, dunque, strettamente dipendente dall'importanza del suo dominio. Quale che fosse l'importanza di quest'ultimo, alla fine del Medioevo nessun sovrano poteva sperare di trarne mezzi sufficienti per garantire un adeguato finanziamento del regno. I costi della guerra e il rafforzamento degli apparati amministrativi rendevano, infatti, indispensabile reperire nuovi mezzi di finanziamento e potenziare quelli tradizionali.
Il diritto di battere
moneta era una vecchia prerogativa del re, ma ancora nel XIII secolo molti signori avevano le loro zecche personali, ottenute per concessione regia o semplicemente per usurpazione. Queste zecche signorili coniavano monete di qualità e valori differenti, senza nessun coordinamento reciproco. Fintanto che i traffici languivano e non interessavano aree territoriali molto vaste, questo caos monetario non creò troppi problemi. Ma la rinascita del commercio e il rafforzamento dell'autorità monarchica resero questa situazione intollerabile: alle condizioni economiche si aggiunsero quelle di prestigio, e il diritto di battere moneta ritornò a essere uno dei segni più evidenti del potere politico. Nel corso del XIV secolo le autorità centrali ripresero, quindi, saldamente in mano la situazione e ripristinarono il loro controllo sulla moneta. Attraverso le emissioni monetarie, il sovrano poteva trarre guadagno in vari modi, ma soprattutto attraverso il signoraggio e la svalutazione. Il primo consisteva nel profitto - ritenuto lecito da tutti - che il principe traeva dalla fabbricazione dei pezzi, il cui valore legale era sempre superiore alla quantità di metallo in essi contenuta. La svalutazione si attuava, invece, attraverso la diminuzione della quantità di oro e di argento contenuta in ciascuna moneta, mantenendosi parallelamente immutato il valore legale della moneta.
Un altro mezzo immediato per incrementare le finanze pubbliche era la manovra del
fisco che, a partire dalla fine del XIII secolo, raggiunse una intensità e un peso sconosciuti ai secoli precedenti dell'età medievale. In primo piano erano le imposte indirette. In Inghilterra come in Francia, a Genova come a Firenze le autorità imposero diritti doganali sulle merci importate ed esportate. Il caso della lana inglese è esemplare: approfittando del fatto che l'Inghilterra deteneva un monopolio quasi assoluto nella produzione della lana, Edoardo III (il sovrano che diede inizio alla guerra dei Cent'anni) decise nel 1361 che tutta la lana inglese esportata nel continente, tranne quella destinata al mercato italiano, doveva essere convogliata nel porto di Calais, dove veniva riscosso il dazio. Nel 1399 alcune centinaia di mercanti diedero vita alla Compagnia della dogana di Calais, che in cambio del prelievo della tassa ottenne il monopolio dell'esportazione di quel prodotto. Gli introiti della corona aumentarono considerevolmente e non è esagerato affermare che, senza di essi, l'Inghilterra non avrebbe potuto sostenere il peso economico del secolare scontro con la Francia. I diritti doganali servivano inoltre come garanzia per i prestiti che il re era costretto a contrarre per ottenere denaro in attesa che si completasse la riscossione delle tasse. I maggiori banchieri operanti in Inghilterra erano i fiorentini Bardi e Peruzzi: nel 1343 i calcoli sbagliati del sovrano, che prima s'indebitò oltre misura e poi rifiutò di far fronte agli impegni, li portò al fallimento.
Oltre ai diritti doganali, s'imposero tasse sui prodotti di prima necessità, quali il grano, l'olio, il vino e il sale. Quest'ultimo era, allora, un prodotto ancora più indispensabile di oggi, perché insostituibile nella conservazione del pesce e della carne. Già nel XII e nel XIII secolo era diffuso in Italia il monopolio statale sulla produzione e sulla vendita del sale: lo istituirono Venezia grazie alle saline di Chioggia, Siena grazie a quelle di Grosseto, Roma grazie a quelle di Ostia. L'esempio fu imitato in tutta Europa, dove l'intervento statale riguardò principalmente la circolazione del minerale, la cui tassazione divenne uno dei cespiti fondamentali delle finanze pubbliche.
Le necessità crescenti delle finanze statali richiesero tuttavia nuove forme di esazione fiscale. Si cominciò così a fare ricorso sistematico a una pratica sconosciuta in età medievale: l'imposizione diretta. Da paese a paese variavano i criteri fiscali - in un luogo si tassavano i capitali, in un altro le rendite, in un altro ancora entrambi - ma quasi ovunque, nel corso del XV secolo, le imposte dirette si affiancarono regolarmente a quelle indirette. Il fenomeno è di grande importanza perché segna un mutamento qualitativo nell'evoluzione dello Stato: il principio secondo il quale tutti sono teoricamente obbligati a contribuire in ragione delle loro possibilità o secondo altri criteri è, infatti, una manifestazione evidente della presenza dello Stato nella società e dei vincoli che legano l'uno all'altro i membri di quest'ultima. Naturalmente, in questa politica di rafforzamento del prelievo fiscale erano avvantaggiati gli Stati che si trovavano più avanti nel processo di centralizzazione e che erano quindi in grado, grazie ai mezzi di cui disponevano, di consolidare ulteriormente le proprie strutture. Nel caso invece delle compagini più deboli e caratterizzate da forti presenze feudali, il problema delle risorse finanziarie si presentava spesso come un problema non risolvibile.
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