8.7 I mali della Chiesa e la riforma religiosa
Le vicende del papato tra IX e X secolo denunciano un forte indebolimento della Chiesa come autonomo centro di potere. Ma la Chiesa era indebolita anche da problemi interni che rischiavano di comprometterne gravemente l'immagine di fronte ai fedeli.
Nell'XI secolo la maggior parte dei preti era sposata o viveva in concubinato, contravvenendo così in modo palese al principio del celibato ecclesiastico, già fissato ufficialmente nel IV secolo d.C. Gli uomini di Chiesa si giustificavano adducendo a motivo di una simile scelta la loro povertà, che li obbligava a tenere in casa almeno una massaia che si occupasse di loro. Ma lo scandaloso comportamento di molti prelati, anche di altissimo livello, e la rapida dispersione del patrimonio ecclesiastico, che veniva spartito tra i loro figli, creavano un palese contrasto tra le virtù raccomandate a ogni buon cristiano e l'esempio che veniva dai ministri di Dio.
A tutto ciò si aggiungeva - fatto ancor più grave - il commercio delle cariche ecclesiastiche: la nomina a vescovo, ad abate o a semplice parroco, portava con sé i redditi delle proprietà connesse, e sembrava naturale a molti uomini di Chiesa metterla in vendita al migliore offerente, come se si trattasse di una banale operazione commerciale. Questo male era aggravato dal fatto che gli acquirenti, costretti a sborsare somme a volte notevoli, cercavano poi di recuperarle facendosi pagare dai fedeli i sacramenti e le funzioni religiose (questa pratica venne chiamata simonia):
Fui ordinato dall'arcivescovo e per ottenere la grazia episcopale gli versai cento soldi d'oro; se non glieli avessi versati non sarei vescovo [...]. Ho sborsato dell'oro, ho ottenuto l'episcopato e ora, se non muoio, recupererò presto il mio denaro. Ordino preti, consacro diaconi e ricevo oro [...]. Ecco ritornato nelle mie tasche l'oro che ne è uscito.
Queste parole, attribuite a un vescovo, sono il miglior commento alla gravità di un fenomeno diffuso a tal punto che nel 1045 un papa corrotto e incapace, Benedetto IX, vendette addirittura la carica pontificia al suo successore Gregorio VI (che aveva peraltro fama di essere un sant'uomo). Ma anche a prescindere dai numerosi episodi di immoralità e corruzione, più in generale si può dire che - soprattutto dopo la svolta di Ottone I (
8.5) - il potere politico sempre più si era arrogato il diritto di gestire l'investitura spirituale non solo dei vescovi ma addirittura dei pontefici. In particolare, i vescovi-conti poco si differenziavano nella condotta e negli interessi da feudatari laici, il che comportava naturalmente uno svuotamento della pratica pastorale che si rifletteva anche nell'indisciplina del basso clero e dei monaci.
Una drastica riforma religiosa s'imponeva dunque alle coscienze dei fedeli e ai settori più sensibili dell'organizzazione ecclesiastica. Nel 910 a
Cluny in Borgogna fu istituito un monastero ispirato alla rigida osservanza della regola benedettina; i fondatori, Guglielmo duca d'Aquitania e l'abate Bernone, usarono l'accorgimento di donare direttamente al papa l'abbazia e tutti i suoi beni, sottraendola così a ogni controllo dell'autorità laica ed ecclesiastica del luogo. L'esempio di Cluny fu contagioso: uno dopo l'altro centinaia di monasteri in tutta Europa instaurarono rapporti privilegiati e senza intermediari con la Chiesa di Roma. Questo imponente movimento aspettava ormai soltanto di essere recepito dall'Impero e dal papato.
Prese l'iniziativa l'imperatore Enrico III di Franconia (1046-56). Approfittando del disordine dilagante a Roma dopo il ritiro di Benedetto IX, egli scese in Italia, depose Gregorio VI e insediò sul soglio pontificio un uomo di punta del movimento riformatore, un vescovo tedesco che prese il nome di Clemente II (1046). Enrico III restaurò il prestigio della massima autorità religiosa della Cristianità: secondo una linea di condotta perfettamente coerente alla tradizione ottoniana, egli compiva il suo dovere di campione della fede, facendo valere il peso del proprio potere temporale. Ma il suo progetto si rivelò un'arma a doppio taglio: il nuovo papa, e soprattutto il suo successore Leone IX (
8.6), si impegnarono a fondo nell'opera di riforma e, risollevate le sorti del soglio pontificio, riportarono in auge il tema della supremazia del papato sui rappresentanti del potere temporale.
A chi spettava il primato? Al capo riconosciuto del cattolicesimo o all'imperatore? Nell'Oriente bizantino la questione era stata risolta in modo netto con la formula del "cesaropapismo" (
2.1): l'imperatore aveva riunito in sé il potere temporale e quello spirituale, e teneva subordinato il patriarca, capo della Chiesa scismatica ortodossa. In Occidente, questi rapporti erano rimasti ambigui e sfumati e non erano mai stati formalizzati. La crisi esplose in tutta la sua gravità nel 1059, quando il pontefice Niccolò II (
8.6), nel Concilio lateranense, emise un decreto d'importanza storica: nessuna ingerenza imperiale o della aristocrazia romana sarebbe stata più tollerata nell'elezione papale: il pontefice doveva essere unicamente prescelto dai cardinali romani (cioè i prelati titolari delle diocesi intorno a Roma e delle chiese dell'Urbe) e non più eletto per acclamazione dalla manovrabile massa del basso clero e del popolo della città; così pure nessun ecclesiastico poteva più ricevere la sua dignità dalle mani di un laico. Questa drastica decisione rinnegava il Privilegio ottoniano e spezzava l'inveterata consuetudine dei sovrani e dei signori feudali di attribuire benefici cui era legato un titolo ecclesiastico, investendo l'interessato sia dal punto di vista temporale sia da quello spirituale. Di qui scaturì il pluridecennale conflitto tra Impero e papato che va sotto il nome di lotta per le investiture.
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