13.6 Nuove aspirazioni e nuovi fallimenti imperiali
Se il papato attraversava nel XIV secolo una fase di forte declino, l'autorità imperiale non mostrava certo segni di ripresa dopo lo sbandamento seguito alla morte di Federico II.
Da un punto di vista territoriale, l'imperatore era rimasto formalmente sovrano di Germania, d'Italia e di Borgogna. Ma in Borgogna il suo potere era più teorico che pratico e la situazione era sotto il controllo dei principi francesi. In Italia, il problema del peso concreto dell'autorità imperiale era, invece, molto più complesso: trattenuti quasi sempre in Germania, nucleo territoriale originario e cuore dell'Impero, i successori di Federico II cominciarono a esercitare frequentemente il loro potere nella penisola tramite vicari che li rappresentavano. Per molti signori locali l'imperatore rimase unicamente colui che poteva legittimare (spesso dietro pagamento) il loro potere già acquisito per vie di fatto. Nei primi decenni dopo la morte di Federico la situazione rimase, però, piuttosto fluida e la forza dell'autorità imperiale variò, anche notevolmente, da regione a regione, in rapporto a circostanze particolari; ma nel complesso l'imperatore, in quanto tedesco, appariva ormai sempre più, alla maggior parte degli italiani, come uno straniero invadente, che era opportuno tenere lontano dalle Alpi.
L'imperatore
Enrico VII (1308-13), della Casa di Lussemburgo, cercò di porre fine a questo stato di cose e manifestò un rinnovato interesse per la penisola. La sua intenzione era di presentarsi come il pacificatore che avrebbe sedato le discordie che dividevano l'Italia e contrapponevano gli uni agli altri, in lotte senza fine, gli Stati agli Stati, le città alle città. Era un progetto utopistico, che crollò al primo urto con la realtà: le città e le fazioni ghibelline, infatti, utilizzarono la discesa dell'imperatore in Italia (nel 1310) per riprendere l'iniziativa e assestare duri colpi ai nemici; Enrico VII fu costretto, di conseguenza, a uscire dal ruolo di mediatore e a sostenere apertamente la causa ghibellina. Intanto il fronte dei guelfi preparava le contromisure. Decisiva si rivelò l'opposizione della guelfa Firenze e del re di Napoli Roberto d'Angiò, anch'egli fedele alla causa dei guelfi: Enrico VII cercò invano di conquistare Firenze e altre città guelfe della Toscana, logorandosi in sterili iniziative militari. Nel 1313, infine, mentre preparava un attacco contro il Regno di Napoli, morì per un'improvvisa malattia a Buonconvento, nei pressi di Siena. Tramontava così l'ultimo sogno di chi, come Dante Alighieri, immaginava un'Italia inquadrata nell'armonia dell'impero universale (p. 306).
Un nuovo tentativo di riproporre la presenza imperiale in Italia fu compiuto da
Ludovico IV il Bavaro (1314-47) della Casa di Baviera, che si fece incoronare a Roma nel 1328 dal nobile ghibellino Sciarra Colonna (lo stesso dell'oltraggio di Anagni) nella veste di rappresentante del popolo romano. Le modalità di questa incoronazione sono degne di rilievo perché mostrano fino a che punto le nuove idee politiche di Marsilio da Padova (che, come si ricorderà, aveva dedicato a Ludovico il Defensor pacis e si era rifugiato presso di lui) guidassero l'azione dell'imperatore: nel momento in cui rifiutava l'incoronazione dalle mani del pontefice e si faceva incoronare da un rappresentante del popolo di Roma, Ludovico IV negava infatti qualsiasi valore all'approvazione pontificia e proclamava l'importanza del consenso popolare. L'imperatore sostenne lo stesso principio in Germania e nel 1338 fece approvare una deliberazione con la quale si negava che l'elezione imperiale avesse bisogno della conferma pontificia.
In Germania la posizione dell'imperatore era indebolita dall'enorme potere dei grandi feudatari e lo stesso Ludovico IV fu deposto dai principi che non approvavano la sua politica accentratrice. Quella dell'imperatore, inoltre, non era una carica ereditaria come quella delle monarchie, ma elettiva. Questa vecchia tradizione fu confermata nel 1356 con la cosiddetta
Bolla d'oro, emanata dall'imperatore
Carlo IV (1355-78) della Casa di Lussemburgo: la designazione al trono imperiale spettò a sette grandi elettori, tre principi ecclesiastici (gli arcivescovi di Magonza, Colonia e Treviri) e quattro principi laici (il re di Boemia, il conte palatino del Reno, il duca di Sassonia, il marchese di Brandeburgo). L'eleggibilità della carica comportava una serie di conseguenze negative: lotte civili, mancanza di continuità dinastica, ripetute concessioni di diritti e di terre da parte dei candidati agli elettori per ottenere i voti necessari alla nomina. Il ripetuto smembramento delle proprietà e dei beni dell'imperatore rendeva molto debole la situazione finanziaria della corte, che non poteva nemmeno competere con quella dei più potenti tra i feudatari tedeschi (si pensi che nel XIII secolo le terre dell'imperatore fruttavano annualmente 7000 marchi d'argento, quelle del duca di Baviera 20.000). Questa debolezza finanziaria rendeva irraggiungibili i due requisiti fondamentali per la creazione di uno Stato capace di svolgere un ruolo di primissimo piano in Europa: un esercito adeguato, un'amministrazione capillare ed efficiente. In Germania trionferanno dunque, proprio come in Italia (capitolo 17), i principati regionali, che ridimensionando le aspirazioni dell'imperatore ritarderanno insieme l'unificazione territoriale dei due paesi.
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