13.3 Il conflitto tra la monarchia francese e il papato
Con un empirismo prudente e traendo lezioni preziose dalle crescenti difficoltà dell'Impero, i re di Francia avevano creato una compagine forte e accentrata. Ma le antiche abitudini di governo convivevano con le nuove esperienze, così come i rapporti feudali - anche se avviati verso un declino inarrestabile - mantenevano ancora una loro vitalità. Uno dei problemi più delicati era quello delle entrate finanziarie del regno, che non poteva contare (come già l'Impero romano o successivamente gli Stati moderni), su imposte regolari, versate dai cittadini. I redditi della corona derivavano dalla gestione diretta delle terre regie, che tuttavia non bastavano a pagare le enormi spese per il mantenimento dell'esercito, dei funzionari, della corte. Erano dunque indispensabili entrate supplementari: tasse indirette sul commercio, diritti di dogana, confische, vendite di cariche e di titoli, operazioni sulla moneta; in situazioni di emergenza (per esempio una guerra) si richiedevano alla popolazione i cosiddetti "aiuti": i contadini, le città, i nobili stessi versavano alla corona somme più o meno considerevoli.
Il crescente bisogno di mezzi finanziari spinse il re di Francia
Filippo IV (1285-1314), detto
il Bello, a un passo molto grave, che infrangeva i secolari privilegi della Chiesa: l'imposizione di decime agli ecclesiastici senza il preventivo assenso del pontefice (1296). Il papa
Bonifacio VIII (1294-1303) reagì con prevedibile veemenza invitando gli ecclesiastici a opporsi alla richiesta del monarca. Si aprì, in questo modo, un contrasto che ricordava le tradizionali lotte tra papato e Impero. Ma questa volta l'antagonista del pontefice non era - come ai tempi di Innocenzo III e Federico II - un imperatore alle prese con mille problemi e attorniato da troppi nemici; era il re di una monarchia forte e circondata dal consenso dei sudditi. La differenza risultò già chiara quando Filippo convocò, per la prima volta nella storia di Francia, gli Stati generali (1302), un'assemblea di cui facevano parte i rappresentanti del clero, della nobiltà e della borghesia (il cosiddetto "terzo stato"). Gli Stati generali proclamarono che i poteri del sovrano discendevano direttamente da Dio, senza la mediazione papale, e decisero di sottoporre il pontefice a giudizio di fronte a un concilio generale (gli venivano rivolte accuse di empietà, eresia, simonia, omicidio, ecc.). Questa decisione fu diffusa in tutta la Francia attraverso un'abile propaganda che utilizzò, per la prima volta, mezzi per l'epoca molto originali (volantini, opuscoli, manifesti fatti pervenire ovunque) e le città e i villaggi furono invitati ad approvarla ufficialmente. La popolazione, per convinzione o per paura, approvò in massa la delibera degli Stati generali e lo stesso fece il clero: furono soltanto poche decine i conventi francesi che si mantennero fedeli al papa.
Si era, così, determinato un fatto assolutamente nuovo: l'autorità papale veniva contrastata da un intero popolo. Nei conflitti che in precedenza avevano opposto un papa a un sovrano (fosse esso un imperatore o un re), il papa aveva potuto sempre sostenere che il popolo dei cristiani, sottomesso in prima istanza a lui, era con lui e contro il sovrano. Ora questo non fu possibile: Filippo il Bello aveva manovrato con estrema abilità una leva importante, che manifestava un modo nuovo di fare politica nell'Europa del tempo: aveva dato voce alla volontà del suo popolo.
Il pontefice reagì emanando, nel 1302, la bolla Unam Sanctam (i decreti papali venivano chiamati bolle da bulla, il termine latino con cui si indicava il sigillo pontificale, e venivano designati con le prime parole del testo), nella quale veniva affermata la più audace ed estrema giustificazione della teocrazia che mai un pontefice avesse formulato: la Chiesa cattolica era una sola e aveva "una sola testa, non due come se fosse un mostro"; questa testa era il papa, cui spettava il sommo potere sul mondo, su tutti gli esseri umani (compresi i re) e in ogni campo. In questo documento il pontefice prendeva anche apertamente posizione sul problema della natura dell'uomo: contro le teorie di derivazione aristotelica allora dilaganti con la loro insistenza sulla diversità tra l'uomo naturale (il cittadino) e l'uomo spirituale (il fedele), il pontefice riaffermò l'unicità dell'uomo spirituale come misura di tutte le cose e, di conseguenza, la superiorità del potere spirituale (p. 305). Gli scrittori vicini al papa (detti curialisti) con in prima fila Egidio da Romano s'impegnavano intanto nel rafforzare, con i loro trattati, i fondamenti teorici del potere teocratico, ravvivando le argomentazioni tradizionali.
La bolla Unam Sanctam è stata giustamente definita come il canto del cigno del papato medievale; la risposta di Filippo fu, infatti, vincente sia sotto il profilo della polemica teorica che sotto quello dell'azione politica. La sua cancelleria e i pensatori a lui vicini (detti legisti) elaborarono rapidamente argomenti di un certo peso nella controversia dottrinale tra i due poteri: "prima che ci fossero i preti - si diceva tra l'altro - il re di Francia aveva la custodia del suo regno e poteva legiferare"; l'indipendenza del re veniva, dunque, rivendicata anche sulla base di considerazioni di ordine storico: il Regno di Francia era preesistente all'ordinamento ecclesiastico e quindi il sovrano aveva anche il potere di governare in totale autonomia. Sotto il profilo più strettamente teorico fu preziosa, a sostegno del re di Francia, l'opera di Giovanni da Parigi, professore all'Università di Parigi. Tra il 1302 e il 1303, negli anni in cui la polemica tra il pontefice e il re raggiungeva i toni più accesi, Giovanni scrisse un'opera destinata a diventare celebre: Sul potere del re e su quello del pontefice, in cui egli applicò le dottrine di San Tommaso (
13.1) alla concreta realtà politica del suo tempo. Giovanni non elaborò idee nuove, ma svolse con grande coerenza logica le dottrine di San Tommaso, offrendole come armi preziose ai nemici della teocrazia pontificia.
Essendo la Chiesa - scriveva Giovanni - un corpo puramente mistico, i suoi ministri dovevano limitarsi alle loro funzioni sacramentali e non avevano alcun diritto d'intervenire nei problemi di governo e nella vita pubblica dei cittadini. L'idea chiave del pensiero di Giovanni, un'idea molto forte dal punto di vista dialettico, stava nell'assimilazione tra il temporale e il naturale: poiché il potere temporale era prodotto dalla natura, esso si basava su leggi proprie, che erano leggi naturali. Il potere spirituale, invece, riguardava solo lo spirito e di conseguenza le leggi ecclesiastiche non avevano alcun valore sulla natura (che aveva leggi proprie) e sullo Stato. Il potere del re, concludeva Giovanni, non derivava dal pontefice, ma dalla volontà divina, che si manifestava attraverso la volontà popolare: il re governava col consenso del popolo. Così, Giovanni introdusse nello scontro politico tra il re e il papa due princìpi fondamentali: l'autonomia del potere temporale (in quanto naturale) dal potere spirituale, la derivazione del potere non più dall'alto, ma dal basso, vale a dire dal popolo. La lezione di Aristotele e San Tommaso entrava nella dinamica politica dell'età tardomedievale.
Il conflitto ideologico senza precedenti tra il pontefice e il re di Francia spingeva dunque i contemporanei a ripensare a fondo i problemi teorici e pratici del potere. Ma conflitti di questo genere si risolvono anche con prove concrete di forza e con la violenza.
Filippo il Bello era anche un uomo d'azione e non concesse al pontefice il tempo di usare la sua arma più pericolosa - la scomunica - e d'irretirlo in una lotta logorante e dall'esito incerto. Uno dei suoi più fidati consiglieri, Guglielmo di Nogaret, con l'appoggio della potente famiglia romana dei Colonna (nemica acerrima dei Caetani, cui apparteneva Bonifacio VIII) sorprese il pontefice nella sua residenza di
Anagni il 7 settembre 1303 e lo catturò. Durante l'episodio il papa fu addirittura schiaffeggiato da Sciarra Colonna, capo della famiglia rivale. Il vecchio Bonifacio non sopravvisse alla terribile umiliazione e morì appena un mese dopo (11 ottobre 1303). Il re di Francia aveva vinto trionfalmente lo scontro.
Il pontificato di Bonifacio VIII segnò la fine di un'epoca e l'inizio di un'altra. L'episodio di Anagni, infatti, non fu significativo solo per la sua drammaticità (fino a qualche decennio prima l'idea di un papa prigioniero nel suo palazzo sarebbe stata inconcepibile), ma per i mutamenti profondi della realtà politica europea che esso esprimeva: il papato era ormai una potenza in declino, incapace di bloccare il rafforzamento delle grandi monarchie.
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