13. Il rafforzamento delle monarchie
13.1 La riscoperta di Aristotele e il nuovo pensiero politico
Nella seconda metà del XIII secolo il pensiero politico subì una profonda maturazione e si avviò a superare la rigida impalcatura teocratica medievale, imboccando vie nuove che avrebbero dato importanti frutti nei secoli successivi.
Tra il pensiero politico e la realtà politica c'è un rapporto circolare: la realtà provoca e stimola il pensiero relativo al potere e alle istituzioni, ma quest'ultimo, a sua volta, incide sulla realtà; la teoria del primato papale, per fare un esempio, nacque dai concreti problemi dei rapporti tra le grandi forze politiche della Cristianità (l'Impero, le monarchie, il papato, i signori, ecc.), ma funzionò a sua volta come impulso della politica, determinando, in alcuni casi, il corso degli avvenimenti. Questo rapporto circolare, in cui non è sempre possibile, per lo storico, individuare la causa prima, deve essere tenuto presente anche nello studio delle grandi trasformazioni politiche che segnarono il passaggio dall'età medievale all'età moderna.
Alla maturazione del pensiero politico medievale contribuì in misura determinante la riscoperta - verificatasi progressivamente lungo tutto il XIII secolo - della riflessione politica di
Aristotele, e in particolare di due fondamentali opere del filosofo greco: l'Etica nicomachea e soprattutto la Politica, la cui conoscenza fu resa possibile da numerose traduzioni latine (il greco era allora una lingua quasi sconosciuta in Occidente).
Per cogliere la novità del pensiero aristotelico rispetto alle dottrine politiche teocratiche allora dominanti (le abbiamo esaminate nel capitolo 9), basterà riflettere su alcuni punti basilari: mentre per la tradizione teocratica il potere politico era un male inevitabile, conseguenza della corruzione e del peccato umano, e il suo uso discendeva direttamente da Dio, per Aristotele esso era un bene prodotto dalla natura, di cui l'uomo si serviva guidato dalla ragione e dalla volontà; era la conseguenza di necessità e impulsi radicati nella vita comune di tutti gli individui. Per la tradizione medievale il potere era nelle mani di chi, ricevutolo direttamente da Dio, lo amministrava senza rendere conto a nessuno; per Aristotele il potere supremo era detenuto dall'insieme dei cittadini, riuniti in un'assemblea sovrana. Per la tradizione gli individui erano sudditi, per Aristotele cittadini. Per la tradizione le attività umane erano valutabili solo unitariamente (
9.1) e l'unico criterio era offerto dalla religione e dalle norme morali imposte dalla volontà divina; per Aristotele le categorie della politica non dovevano essere assorbite da quelle della morale, perché diverse erano le leggi della morale e quelle della politica. Per la tradizione l'uomo, ricevuto il battesimo, passava dalla condizione di uomo naturale a quella di uomo spirituale; per Aristotele l'uomo era unicamente un animale politico. Quest'ultimo punto è di particolare importanza perché significa che il modo in cui l'uomo organizza la propria vita terrena doveva essere analizzato al di fuori di qualsiasi presupposto religioso.
Tutto questo fa comprendere l'effetto rivoluzionario provocato dalla lettura di Aristotele, e non a caso la riscoperta del filosofo greco è stata considerata una linea di demarcazione tra il pensiero politico medievale e il pensiero politico moderno.
Ma il successo del pensiero politico di Aristotele nel XIII secolo (e oltre) non fu dovuto soltanto alla straordinaria profondità e all'inesauribile ricchezza della sua analisi. In questo caso la circolazione delle sue opere sarebbe rimasta confinata a una ristretta cerchia di eruditi. Invece questa circolazione fu vasta e rapida. La spiegazione del fenomeno è semplice: il pensiero del filosofo greco offriva la giustificazione, il punto di appoggio teorico, a tutta una serie di fermenti e di novità che animavano la società dell'epoca, e che costituirono il terreno fertile sul quale s'impiantò e dilagò l'aristotelismo. In particolare, la dottrina aristotelica dell'uomo come "animale politico" e della provenienza del potere dal basso offriva l'impalcatura teorica a quelle tendenze associative come i comuni, le Università, le confraternite, le corporazioni, in cui gli uomini del tardo Medioevo trovavano, spesso in contrapposizione o in alternativa al potere teocratico, motivi di interesse e di unione. Il potere teocratico esprimeva un modo tradizionale di interpretare e regolare i rapporti tra gli uomini; le associazioni esprimevano una realtà nuova, messa in moto dalla ripresa economica e dalle trasformazioni sociali a essa collegate, una realtà in cui aveva un ruolo dominante il consenso e l'autogoverno dei membri.
Le idee politiche di Aristotele ebbero questa circolazione anche perché la loro comprensione e accettazione fu facilitata dalla conoscenza del
diritto romano, che veniva ampiamente studiato nelle Università e che, insieme con il diritto canonico (
9.1), costituiva la formazione di base degli uomini di legge, dei notai, degli amministratori. Nel diritto romano, infatti, era costante il riferimento al concetto di "cittadino" (civis) e di "cittadinanza" (civitas), lo stesso che era alla base del pensiero aristotelico, e che trovava una sempre più diffusa applicazione pratica nella realtà dei comuni italiani e stranieri.
Di fronte alla penetrazione delle idee di Aristotele si pose il problema di trovare una conciliazione tra queste idee e la concezione cristiana del mondo. Questo compito fu assunto dal frate domenicano
Tommaso d'Aquino (1225-74), che è considerato il più grande filosofo del Medioevo. Grazie alla sua opera infaticabile e alla sua acuta sintesi dei princìpi cristiani e di quelli aristotelici, il pensiero di Aristotele fu legittimato e diventò parte fondamentale del patrimonio intellettuale dell'epoca: il
tomismo (così viene chiamato il pensiero di San Tommaso) è stato giustamente definito un "aristotelismo cristiano".
Utilizzando Aristotele, Tommaso elaborò la teoria di un "duplice ordine della realtà", che riguardava da un lato l'ordine naturale, dall'altro l'ordine soprannaturale: il cittadino corrispondeva al primo, il fedele cristiano al secondo. L'importanza di questa affermazione è enorme perché per la prima volta, in età medievale, si fece ampio uso, in una riflessione politica, del concetto di "cittadinanza".
Il cittadino era tale per natura, e se Aristotele aveva affermato che l'uomo è un animale politico, Tommaso andò oltre affermando che era un "animale politico e sociale": "A volte accade - scrisse Tommaso - che una persona sia un buon cittadino anche se non possiede la qualità che farebbe di lui allo stesso tempo un uomo buono; dal che segue che la qualità secondo cui una persona è un uomo buono o un buon cittadino non è la stessa". Era come dire, sulla scia di Aristotele, che etica e politica non coincidono sempre e che ciò che vale per l'una non vale per l'altra. Ma a dire queste cose era un uomo di Chiesa, il più illustre dei pensatori cristiani, e questo era davvero un fatto rivoluzionario.
Da queste affermazioni nasceva un'altra importante conseguenza: lo Stato era una realtà naturale, la Chiesa una realtà soprannaturale. Il primo era stato infatti creato dalla natura, la seconda da Dio. Tanto la Chiesa che lo Stato erano, però, manifestazioni dell'ordinamento divino del Creato, l'una sul piano soprannaturale, l'altra sul piano naturale. C'era dunque un dualismo nella concezione di Tommaso, ma anche una complementarità, perché la Chiesa, intesa come società dei credenti, completava lo Stato, proprio come l'uomo soprannaturale completa l'uomo naturale e la grazia divina perfeziona la natura. Del resto la stessa "legge naturale", sulla quale si fondava lo Stato, aveva alla sua base la legge divina; "la legge naturale - disse Tommaso - non è altro che il tramite attraverso il quale la creatura dotata di ragione partecipa alla legge divina". Malgrado questo sforzo di conciliare naturale e soprannaturale, il punto fondamentale, ha scritto Walter Ullmann, "è che il tomismo riconobbe la legittimità di un'organizzazione politica puramente umana, un concetto e un'idea che prima era stata assente dalla mente degli uomini. [...] veniva così riempito un vuoto che aveva caratterizzato tutto il Medioevo. Veniva così rotto, almeno concettualmente, il monopolio della più semplice dottrina teocratica che il potere e la legge discendono dall'alto: essa non sembrava più sufficiente come pilastro dell'edificio delle istituzioni. San Tommaso propose invece la dottrina che l'opera di Dio si manifesta sia nella natura che nella rivelazione. Di conseguenza la fonte dell'autorità non poteva più essere ricercata esclusivamente nelle parole rivolte da Cristo a san Pietro, ma doveva essere riconosciuta come tale anche la comunità naturale, lo Stato".
San Tommaso aveva voluto conciliare la tradizione teocratica, nella quale egli pure fermamente per tanti aspetti credeva, con il carattere dirompente che la grande costruzione aristotelica finiva inevitabilmente per assumere in quel periodo di vaste trasformazioni che fu il XIII secolo. Ma proprio la parte del suo pensiero che più recepiva e rielaborava la dottrina politica di Aristotele fu utilizzata ampiamente, dai nemici del potere teocratico, per portare un decisivo attacco al papato e a qualsiasi altra potenza manifestasse aspirazioni teocratiche. Il fenomeno coincise, come vedremo fra poco, con il processo di rafforzamento delle grandi monarchie europee.
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