18.8 L'élite creativa
Tra il '400 e il '500 l'Italia contava circa dieci milioni di abitanti, la maggior parte dei quali erano contadini analfabeti; la loro unica preoccupazione quotidiana era la sopravvivenza. Queste masse, ovviamente, erano del tutto estranee alla civiltà del Rinascimento, che fu la creazione di un gruppo ristretto di individui, il cui numero non superava le mille unità. Sul lungo periodo, la creatività di questa élite ebbe però un'importanza enorme anche sui destini di intere popolazioni. Questo gruppo di intellettuali contribuì infatti allo sviluppo culturale delle classi dirigenti e liberò dal peso di vecchi pregiudizi intere generazioni di scienziati, di politici, di ecclesiastici.
Questo gruppo di artisti, letterati, umanisti, scienziati, che uno storico ha definito con una bella espressione, "élite creativa", è stato largamente studiato sotto il profilo della storia culturale. Più recenti sono le indagini di carattere sociale, che consentono di guardare ad essa attraverso una prospettiva diversa. Ne emerge un quadro di estremo interesse della società italiana durante il Rinascimento.
Tra le diverse centinaia di pittori, scultori, architetti, musicisti, umanisti, scienziati, scrittori di questo periodo, le donne sono pochissime, e tutte poetesse: ci sono note le personalità di Vittoria Colonna (1490-1547), la "divina" celebrata da Michelangelo, Veronica Gambara (1485-1550), Tullia d'Aragona (1508-1565), Gaspara Stampa (1520-1554). Altre rarissime figure, come Marietta, figlia di Tintoretto e anch'essa pittrice, sono poco più che nomi. Al fenomeno si possono anche dare spiegazioni psicologiche (l'impossibilità di procreare accrescerebbe, negli uomini, la creatività intellettuale), ma il dato di fondo è sociale: in una società dominata dagli uomini il talento femminile è inevitabilmente depresso.
L'élite creativa, considerata nel suo complesso, rivela precise caratteristiche geografiche e sociali. Il divario tra l'apporto numerico che le singole regioni hanno dato all'élite creativa e la rispettiva percentuale di popolazione rispetto all'insieme della penisola (divario rappresentato nelle percentuali della tabella), mette in luce un fenomeno estremamente significativo: "il Rinascimento italiano fu creato da quattro regioni - la Toscana, il Veneto, i territori pontifici - abitate da poco più della metà della popolazione totale: "l'altra metà, dal Piemonte alla Sicilia - ha scritto Peter Burke - fu culturalmente sottosviluppata. Le cifre sulla popolazione totale evidenziano inoltre che il contributo toscano (immagino che bisognerà definirlo "creatività pro capite") è molto più spettacolare di quello veneto, anche se le cifre assolute sono più o meno le stesse".
Non meno importante della provenienza geografica è il problema dell'estrazione sociale dell'élite creativa. Per la maggior parte dei personaggi (il 57%) questo elemento è ignoto. Quanto sappiamo sul resto dei componenti consente, tuttavia, di delineare un quadro sufficientemente attendibile. Se si divide la popolazione in cinque gruppi principali - ecclesiastici, nobili, mercanti e professionisti (vale a dire notai, avvocati, professori universitari, medici, ecc.), artigiani e bottegai, contadini - si rileva subito come il contributo del primo gruppo (ecclesiastici), sia stato praticamente nullo (solo due casi fino al 1540): il segnale è della massima importanza perché fa comprendere quanto la nuova cultura fosse praticata da ceti diversi da quelli che avevano monopolizzato la cultura medievale. L'estrazione sociale dei rimanenti casi noti (sempre fino al 1540) è la seguente: 114 figli di artigiani e bottegai, 84 figli di nobili, 48 figli di mercanti e professionisti, 7 figli di contadini.
Se procediamo a un'analisi ulteriore e teniamo presenti le svariate occupazioni dei membri dell'élite creativa, suddividendole in due raggruppamenti - da un lato pittori, scultori e architetti, dall'altro scrittori, scienziati e umanisti - scopriamo anche che l'origine sociale dei due raggruppamenti era molto diversa: su 136 pittori, scultori e architetti, ben 96 erano figli di artigiani e bottegai, mentre i rimanenti 40 erano figli di nobili, mercanti e professionisti. Nel secondo raggruppamento (scrittori, scienziati e umanisti), il dato risulta del tutto opposto: 95 erano figli di nobili, mercanti e professionisti, appena 7 erano figli di artigiani e di bottegai. La differenza di questi dati si spiega principalmente con il fatto che l'attività di artista, a differenza delle altre, era considerata indegna del figlio di un nobile o di un professionista o anche di un grande mercante. Malgrado talune eccezioni (prima fra tutte quella di Michelangelo, che era figlio di un magistrato), l'esercizio delle arti figurative veniva invece tramandato all'interno dei gruppi familiari; inoltre per il figlio di un artigiano diventare scrittore, scienziato o umanista era arduo, anche a causa degli alti costi dell'istruzione universitaria, ben più alti di quelli dell'apprendistato artigianale.
Gli artisti rinascimentali nascevano dunque nel solco della grande tradizione artigianale del Medioevo e questo spiega bene (anche se la spiegazione, da sola, non è sufficiente) come una città estremamente dotata dal punto di vista artigianale come Firenze, abbia prodotto un così grande numero di artisti, mentre città come Roma e Napoli, pur affollate di maestri "immigrati", ma prive di un consistente tessuto artigianale, abbiano dato un contributo molto modesto di propri cittadini alle arti.
Quanto ai figli dei contadini, la loro debolissima presenza nell'élite non deve sorprendere. Per loro il mondo delle arti e della cultura umanistica era un pianeta sconosciuto e, anche se avessero voluto entrarvi, non ne avrebbero avuto i mezzi economici. Il celebre aneddoto su Giotto, che fu scoperto per caso da Cimabue mentre badava alle pecore e disegnava su una pietra, è, sotto questo profilo, esemplare: per diventare grande artista un giovane contadino dotato di talento come Giotto aveva bisogno di due colpi di fortuna: abitare in un paesino non lontano da Firenze e incontrare Cimabue.
La crescita economica, con l'intensificazione dei traffici e dei commerci a lunga distanza, aveva portato, nell'Italia tardomedievale, a una rivalutazione dei mestieri lucrativi, primo fra tutti quello del mercante. Questa rivalutazione, tuttavia, non s'impose ovunque, e il cambiamento non fu rapido: come sempre accade nella storia della mentalità, accanto all'affermazione di nuovi valori permanevano, infatti, le antiche condanne (
7.6 e p. 426). Questa trasformazione fu comunque l'elemento di maggiore novità nel sistema dei valori sociali delle città italiane. In questo rinnovamento delle antiche concezioni del lavoro rientra anche la parziale rivalutazione del ruolo dell'artigiano e dell'artista.
Sul lavoro dell'artista pesavano da secoli tre pregiudizi: si trattava di un lavoro manuale come quello dell'artigiano (un'"arte meccanica"), e quindi indegno di un individuo di condizione elevata; un gentiluomo - si diceva inoltre - non poteva certo imbrattarsi con i colori, né ricoprirsi di polvere, di fango e di sudore come facevano gli scultori. L'artista, inoltre, vendeva le sue opere, e questo lo rendeva simile al venditore al dettaglio; in quanto tale, egli era assimilabile, per esempio, a un ciabattino o a un droghiere; questa accusa era rivolta più facilmente agli artisti che tenevano veramente bottega, e non a caso Michelangelo affermava con forza di non aver mai lavorato in bottega: "Sempre me ne son guardato per l'onore di mio padre e de' mia frategli".
Combattere contro questi argomenti non era facile ed essi non furono mai veramente sconfitti durante il Rinascimento. Eppure anche sotto questo profilo qualcosa cominciava a cambiare e la posizione sociale dell'artista conobbe, almeno dei casi di maggiore successo, una notevole ascesa. Alle accuse di ignoranza si obiettava che anche i pittori dovevano studiare materie come la geometria e la storia, e si ricorreva anche a esempi antichi: Leon Battista Alberti ricordò che Alessandro Magno teneva nella massima considerazione il pittore Apelle, e che gli antichi romani mandavano i loro figli a scuola di pittura. Leonardo da Vinci sosteneva che il pittore non doveva essere paragonato al bottegaio, ma al poeta, perché entrambi creano con la fantasia, e celebrava il pittore che "con grand'aggio siede dinanzi alla sua opera ben vestito, e muove il levissimo pennello con li vaghi colori, et ornato di vestimenti come a lui piace [...] et accompagnato spesse volte di musiche o lettori di varie e belle opere".
Lo stesso Leonardo criticò, facendo ricorso al concetto di
esperienza, l'uso spregiativo dell'espressione "arti meccaniche", con la quale venivano bollate le attività tecniche, che facevano uso di strumenti: "Dicono quella cognizione esser meccanica, la quale è partorita dall'esperienza, e quella esser scientifica, che nasce e finisce nella mente. [...] Ma a me pare che quelle scienze sieno vane e piene di errori, le quali non sono nate dall'esperienza, madre di ogni certezza, e che non terminano in nota esperienza". Del resto, che qualcosa cominciasse a cambiare anche riguardo alla considerazione sociale riservata agli artigiani, sembra dimostrato da alcune novità, prima fra tutte la nascita del
brevetto, che assicurava all'ideatore di una determinata invenzione i diritti di sfruttamento da essa derivanti. Nel 1474, infatti, una legge veneziana fissò alcune norme in difesa degli interessi di quegli "accutissimi ingegni apti ad excogitar et trovar varii ingegnosi artificii"; essa precisò inoltre che il suo scopo era anche quello di difendere l'"onore" dell'inventore, cioè la sua meritata fama, insidiata dagli imitatori. Queste invenzioni pratiche protette dal brevetto nascevano quasi sempre nel mondo modesto delle botteghe, che ora cominciava a scrollarsi di dosso il disprezzo di sempre e assumeva una nuova dimensione sociale.
Argomenti come questi non erano trascurabili, ma di maggior peso, nella riabilitazione sociale degli artisti, furono l'ammirazione che le loro opere suscitavano negli ambienti nobili e benestanti, e gli altissimi compensi che gli artisti più affermati richiedevano e ottenevano. Alcuni di loro, come Perugino, Mantegna, Raffaello e Tiziano, divennero ricchissimi. Alla ricchezza si accompagna spesso la concessione, da parte dei signori e dei principi, di titoli e cariche: Tiziano fu nominato conte dall'imperatore Carlo V, e conte divenne anche Mantegna, per volontà del pontefice Innocenzo VIII; Carlo Crivelli fu fatto cavaliere dal principe di Capua e il Pordenone dal re d'Ungheria. Il fenomeno suscitava stupore all'estero: "Qui io sono un signore, ma in patria mi sento un parassita", disse il grandissimo pittore e incisore tedesco Albrecht Dürer durante un suo soggiorno a Venezia.
Gli artisti che si arricchivano e che ricevevano onori erano però una minoranza rispetto al gruppo considerato nel suo complesso. Vasari affermava che spesso gli artisti dovevano combattere "più con la fame che con la fama", e il celebre Verrocchio fu costretto a dichiarare al fisco che dai proventi della sua bottega non si ricavava tanto da acquistare le calze ("non guadagniamo le chalze"); Botticelli combatté spesso con i creditori e Lorenzo Lotto fu costretto, in un'occasione, a mettere in palio in una lotteria trenta dei suoi quadri.
Quanto si è detto per le condizioni economiche e il ruolo sociale degli artisti, vale, ma in misura minore, anche per gli umanisti. Certo non era possibile rivolgere agli scienziati e ai letterati le stesse accuse che venivano rivolte ai pittori o agli scultori (gli umanisti non svolgevano lavori manuali e non commerciavano a bottega la loro cultura). Ma questo non vuol dire che la situazione sociale ed economica di tutti loro fosse rosea. Di fronte a pochi individui che divennero celebri e potenti cancellieri della loro città o segretari di principi e di sovrani, c'era una folla di gente che tirava a campare con piccoli lavori saltuari.
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