16.8 L'emergere delle nazioni
La guerra dei Cent'anni iniziò come guerra feudale e si concluse come guerra "nazionale". Da alcuni storici essa viene anzi considerata come la prima guerra nazionale nella storia d'Europa: sotto questo profilo il conflitto può essere anche interpretato come l'"aspetto diplomatico e militare del periodo di transizione dal feudalesimo allo Stato nazionale" (Trevelyan). Come conseguenza della guerra e soprattutto del suo esito negativo, si ebbe, tra gli inglesi, una forte accentuazione di un sentimento insulare, nutrito dall'orgogliosa e superba consapevolezza della propria diversità (intesa come superiorità) rispetto ai popoli del continente. Non molto tempo dopo la conclusione del conflitto, l'ambasciatore veneto osservò che gli inglesi "credono che non ci siano altri che loro e che il mondo termini con l'Inghilterra. Quando s'imbattono in uno straniero aitante e di bell'aspetto, dicono "sembra un inglese", oppure "peccato che non sia inglese"". In Francia l'emergere della coscienza nazionale (di cui l'episodio di Giovanna d'Arco fu la manifestazione più lampante) era stato direttamente provocato da più di un secolo di occupazione straniera e da avvenimenti gravissimi come il trattato di Troyes che, per un certo periodo, cancellò addirittura 1'esistenza autonoma della monarchia francese. La lunghezza e l'asprezza del conflitto accelerarono pertanto nei due paesi il processo di formazione di una coscienza nazionale, ma il fenomeno ebbe presto una portata più vasta, abbracciando la gran parte delle popolazioni europee.
Fino alla guerra dei Cent'anni la lingua parlata dalle classi elevate inglesi, usata a corte e nei tribunali, era il francese: gli antichi legami di parentela tra le dinastie regnanti dei due paesi aveva infatti reso omogenei, dal punto di vista culturale e linguistico, i ceti dirigenti dei due paesi. Durante la guerra, però, il francese fu sentito inevitabilmente come la lingua dei nemici e alcune ordinanze regie intervennero prontamente ad abolirne l'uso. In un'Europa che assomigliava sempre più a una torre di Babele, a un groviglio di idiomi incomprensibili, la lingua era, in effetti, il carattere che prima e meglio di ogni altro serviva a distinguere una nazione. Questo non significa, ovviamente, che nei regni dell'epoca ci fosse una totale identità tra ambito politico e ambito linguistico: il re di Francia non era soltanto il sovrano dei sudditi che parlavano francese, ma anche di quelli che parlavano provenzale e fiammingo; il re d'Inghilterra regnava su normanni, sassoni e bretoni, tutti parlanti lingue diverse; il re d'Aragona su spagnoli (aragonesi), catalani, provenzali, arabi, e così via. In questa pluralità, tuttavia, cominciava a emergere la comunanza di una lingua destinata a diventare la lingua della nazione.
Il fenomeno si colorò anche di elementi religiosi. Permaneva, in quest'epoca, la consapevolezza dell'unità della Christianitas rispetto agli "infedeli", e in un mondo permeato di religiosità come quello tardo-medievale, questa consapevolezza avrebbe potuto senza dubbio rappresentare un forte ostacolo alla formazione di una piena coscienza nazionale. Da antidoto a essa funzionò l'enfasi attribuita al culto dei santi nazionali: come i singoli individui, le associazioni di mestiere, le città, avevano i loro santi patroni, così interi regni affidavano le loro sorti alla protezione di un santo. La Francia attribuì un culto particolare a San Dionigi, primo vescovo di Parigi; eclissato per breve tempo da Michele, il santo con cui dialogava Giovanna d'Arco, Dionigi tornò stabilmente in auge dopo la guerra. L'Inghilterra (dove tuttavia questo elemento religioso era molto meno importante) era legata da un rapporto particolare con San Giorgio, l'uccisore del drago. La Polonia si riconosceva in San Stanislao, vescovo e martire, la Boemia in San Venceslao, l'Ungheria nel suo primo re, Santo Stefano, la Repubblica di Venezia in San Marco, e così via.
L'ascesa delle lingue volgari, l'incrinarsi del monopolio del latino come unica lingua di cultura, la volontà di parlare direttamente a grandi masse di fedeli, portò alle traduzioni della Bibbia in lingue locali: ben prima che i tedeschi leggessero la Bibbia tradotta da Martin Lutero, John Wycliffe aveva tradotto le Sacre Scritture in inglese (
13.8) e in Boemia si leggeva una Bibbia tradotta in lingua ceca.
La crisi del papato durante il Grande scisma favorì la formazione delle Chiese nazionali: al Concilio di Costanza, convocato per riunire tutti i cristiani dell'Occidente sotto un unico papa (
13.8), i padri votarono non più individualmente, ma divisi per "nazione" (italiani, spagnoli, inglesi, francesi, tedeschi). Si prese così ufficialmente atto che la Cristianità, unica in teoria, era in pratica frammentata in Stati e divisa in comunità nazionali con cui anche l'organizzazione ecclesiastica doveva confrontarsi e recepirne l'esistenza al suo interno: si cominciò così a parlare di una Chiesa anglicana (inglese), di una Chiesa gallicana (francese), tedesca, ceca, e così via, ognuna legata alla Santa Sede da rapporti più o meno stretti.
In questa situazione si comprende bene come gli ebrei finissero per trovarsi ora in una condizione di duplice emarginazione: a quella tradizionale, derivante dalla religione e dalle abitudini (
14.5), se ne aggiunse un'altra, di carattere politico. L'unità tra Stato e religione faceva apparire i "diversi" come individui pericolosi anche per l'unità politica.
Il legame stabilitosi per ragioni storiche tra un popolo, un paese e uno Stato, venne interpretato in termini naturali. Nell'XI e nel XII secolo l'aggettivo naturalis veniva usato per indicare, per esempio, il vincolo che legava il vassallo al signore. Ora esso viene invece usato per qualificare rapporti più complessi e globali: "La forza della maggior parte dei giovani Stati europei alla fine del Medioevo - ha scritto Bernard Guenée - sta nel fatto che essi appaiono ai loro abitanti come naturali". In Francia i teorici definiscono fraternitas naturalis quella che lega gli abitanti al regno; in spagnolo il verbo desnaturar indicò la rottura del vincolo naturale che univa un uomo al suo signore e al suo paese.
Parallelamente si qualifica meglio la nozione di straniero. In precedenza lo straniero era semplicemente colui che "veniva da fuori": fuori del villaggio, della città, della signoria. Ora indica "colui che non è nato nel regno", con un'accezione inevitabilmente peggiorativa.
L'emergere di tutti questi elementi di coscienza nazionale, globalmente considerati, rappresenta un fatto nuovo nella storia europea. Non si deve tuttavia trarne la conclusione che in questo periodo esistessero "nazioni" nel senso moderno del termine, quale esso si è venuto a formare dopo la rivoluzione francese. Anzitutto accanto al termine "nazione" indicante grosso modo l'insieme dei grandi regni a carattere nazionale, permanevano accezioni più limitate del termine; in Francia, per esempio, si continuò a parlare di "nazione borgognona" o "nazione piccarda" mentre con "nazione anglica" s'intendeva spesso, in modo indifferenziato, non solo gli inglesi, ma anche i tedeschi, gli scandinavi, i polacchi, ecc. Ma c'è anche una ragione più profonda di diversità: nell'idea moderna è fondamentale la coincidenza tra la "nazione" e il "popolo" inteso come depositario della sovranità politica. Nel suo senso pieno (e moderno) la nazione è dunque il fondamento naturale del potere politico detenuto dal popolo. Nel periodo di cui ci occupiamo, e più in generale prima della rivoluzione francese, manca proprio questo elemento fondamentale: le grandi masse non erano depositarie del potere politico e non influivano sulla conduzione generale del paese; il loro consenso, infatti, non era richiesto, o era il frutto della coercizione. Quanto alle assemblee rappresentative - di cui abbiamo già analizzato la nascita (
13.3 e
13.9) - esse non rappresentavano il popolo nel suo complesso, ma solo gruppi privilegiati, rappresentanti a loro volta solo una minoranza della popolazione. Infatti le donne, i contadini, i nullatenenti, i servi, non avevano alcuna possibilità di esprimere la loro volontà politica.
L'emergere dei primi grandi Stati nazionali, caratterizzati da un potere monarchico accentrato ed esteso su vasti territori, i cui sudditi cominciano a sentirsi legati da vincoli comuni di carattere "nazionale", deve essere dunque considerato come il primo stadio di un fenomeno secolare, che giunse a maturazione più di tre secoli dopo.
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