4.2 L'età di Gregorio Magno
Nella storia del papato, la conquista longobarda dell'Italia segnò una svolta decisiva. Il vescovo di Roma, infatti, si trovò improvvisamente privo di una concreta protezione politica e militare, in un territorio di frontiera tra l'Italia bizantina e l'Italia longobarda. Per sopravvivere, era necessario trovare uno spazio politico autonomo: la risposta che la Chiesa romana trovò a questa necessità gettò le basi del suo potere temporale.
Il maggior interprete di questa fase della storia del cristianesimo fu papa
Gregorio Magno (590-604), uno dei grandi fondatori della Chiesa medievale. Discendente dalla nobile famiglia romana degli Anici, egli univa a una vastissima conoscenza del diritto e a uno scrupoloso rispetto per la legge, un profondo senso del realismo e una duttilità che gli consentivano di destreggiarsi abilmente nelle situazioni più difficili. Prima di essere nominato papa, Gregorio era stato ambasciatore pontificio presso la corte di Costantinopoli: qui aveva potuto comprendere quanto fosse radicata, in Oriente, l'idea dell'autorità imperiale in quanto autorità suprema e incontrastata (anche in materia di religione), e quanto sarebbe stato inutile, di conseguenza, il tentativo del papa di Roma di far valere in quella parte del mondo il proprio primato. Eletto al pontificato egli concentrò di conseguenza il suo impegno sulla cristianità occidentale.
Nel VI secolo il papato era il maggior proprietario terriero dell'Europa occidentale. I suoi possedimenti, chiamati patrimoni, si estendevano in tutta l'Italia, oltre che in Dalmazia, Gallia, Sardegna, Sicilia, Corsica, Africa. Li gestiva una fitta rete di amministratori diretta da Roma. Gregorio mostrò una cura particolare nell'amministrazione di queste immense proprietà, i cui proventi avevano una spiccata destinazione sociale. Oltre al mantenimento del papato, essi servivano infatti al mantenimento delle Chiese povere, dei monasteri, al riscatto dei prigionieri, e all'approvvigionamento delle popolazioni locali, prima fra tutte quella di Roma, la cui sopravvivenza dipendeva ora dall'organizzazione papale come un tempo da quella imperiale. Ci fu addirittura un momento in cui persino il presidio bizantino di Roma fu mantenuto dai sussidi papali. Il popolo di Roma si riconosceva pienamente nel suo vescovo, che appariva ormai come la massima autorità in città e nel territorio circostante. Il prestigio papale si accresceva anche perché il vescovo di Roma appariva spesso l'unico punto di riferimento in un mondo in preda all'insicurezza, alla miseria, alle violenze.
Per protesta contro il patriarca di Costantinopoli, che aveva assunto il titolo di "patriarca ecumenico" (vale a dire universale), Gregorio prese un titolo che resterà per secoli nella titolatura ufficiale del papato: servo dei servi di Dio. Alla pomposa e ambiziosa espressione bizantina il vescovo di Roma opponeva un titolo di umiltà, che traduceva, in termini ufficiali, una delle massime virtù cristiane.
Sotto il profilo concreto egli agì però in una dimensione "mondiale", in quella parte dell'Europa che era di fatto sottratta all'influenza bizantina. Lo abbiamo già visto tessere con la corte e con i duchi longobardi una trama di rapporti destinata, in progresso di tempo, a convertire quel popolo al cattolicesimo (
3.4). Ma l'iniziativa di Gregorio non si svolse solo in questa direzione.
Nel 595 egli promosse infatti una delle più importanti imprese missionarie dell'età medievale: un gruppo di monaci guidati da Agostino (il futuro Sant'Agostino di Canterbury) diede l'avvio all'evangelizzazione degli anglosassoni, ancora pagani: nel corso del VII secolo l'Inghilterra fu conquistata al cattolicesimo e legata strettamente all'osservanza romana. Come ebbe a dire secoli dopo un grande storico, a Giulio Cesare erano servite sei legioni per conquistare la Britannia, a papa Gregorio appena 40 monaci. Il cattolicesimo fece inoltre importanti progressi in Spagna, grazie all'opera dell'arcivescovo Isidoro di Siviglia, e in Gallia, dove i legami già stretti con la corte franca furono ulteriormente rafforzati.
Sotto il pontificato di Gregorio Magno emerse in tutta la sua chiarezza la gravità della crepa che andava separando il cristianesimo occidentale da quello orientale, la Chiesa di Roma dall'Impero. Questa frattura si manifestava nello "stile" stesso della politica di Gregorio. Rivolgendosi ai principi e ai sovrani occidentali il papa usava il tono di chi comanda, del padre autorevole e potente che si rivolge ai suoi "figli" (così egli chiamava i suoi interlocutori); rivolgendosi all'imperatore egli si atteggiava invece a suddito. "Il principio supremo cui Gregorio si attenne - ha scritto Walter Ullmann - fu di evitare ogni conflitto con il governo di Costantinopoli nel momento in cui egli stava costruendo la propria posizione in Occidente. Una duplice politica - con indirizzo diverso nei confronti dell'Oriente e dell'Occidente - fu l'insuperabile contributo di questo papa alla storia del papato".
Malgrado i grandi successi ottenuti nell'età di Gregorio Magno, la Chiesa di Roma era ancora lontana dall'aver consolidato stabilmente le proprie posizioni. Anzi, era stata proprio la straordinaria personalità di quel pontefice a dare un risalto eccezionale al papato e alla sua presenza nella cristianità occidentale. Quanto fosse ancora fragile l'edificio costruito dalla Sede apostolica, lo si vide infatti chiaramente sotto i successori di Gregorio, allorché l'imperatore di Costantinopoli intervenne con la massima durezza per ricondurre all'osservanza la Chiesa romana: nel 653 papa Martino I (649-55), che aveva difeso una dottrina cristologica condannata dall'imperatore, fu arrestato, portato a Costantinopoli e accusato di alto tradimento: esiliato, morì in Crimea due anni dopo. Ma questo non fu l'unico episodio del genere: nel 655 il monaco e teologo Massimo detto il Confessore, che aveva duramente attaccato l'assunzione, da parte dell'imperatore, di prerogative papali, fu arrestato insieme con i suoi seguaci e trasferito da Roma a Costantinopoli. Qui subì il processo, durante il quale rifiutò di ritrattare, affrontando la collera imperiale: gli furono tagliate le mani e la lingua, e fu inviato in esilio. Un'altra grave crisi si aprì nel 692, quando il pontefice Sergio I (687-701) rifiutò l'ordine imperiale di sottoscrivere i verbali di un concilio al quale non era stato nemmeno invitato. Il papa riuscì a evitare la cattura e la punizione per la furiosa reazione del popolo romano che mise in fuga i funzionari bizantini. Ma altri non riuscirono a evitare la vendetta dell'imperatore: il vescovo di Ravenna, Felice, fu accecato ed esiliato.
Ma questi sussulti di autoritarismo e di brutalità erano solo il segno dell'impotenza di Costantinopoli, di fronte a una situazione che sfuggiva inesorabilmente al suo controllo. L'ultimo viaggio di un papa romano a Costantinopoli risale al 711: ormai i rapporti tra le due città si andavano progressivamente ma inesorabilmente allentando.
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