3.5 La società longobarda nell'Editto di Rotari
Nel 643, su iniziativa del re
Rotari (636-52), il popolo longobardo, riunito in solenne assemblea a Pavia, approvò la sua prima raccolta di leggi scritte, nota appunto come
Editto di Rotari (p. 62). Le consuetudini erano state fino a quel momento tramandate oralmente.
Come abbiamo visto, la maggiore difficoltà nello studio della società longobarda nei primi cento anni circa dopo la conquista, dipende dall'assenza quasi totale di fonti scritte contemporanee (l'opera di Paolo Diacono risale infatti alla fine dell'VIII secolo): il primo secolo dell'età longobarda è quindi uno dei periodi più bui dell'intera storia italiana. L'Editto apre questo velo e ci presenta la società longobarda in un quadro sufficientemente articolato.
L'Editto fu scritto in latino, non perché nella sua elaborazione avessero avuto un ruolo decisivo individui di origine romana, ma perché il latino svolgeva la funzione di "linguaggio artificiale", tradizionalmente in uso, peraltro, per esprimere contenuti di carattere giuridico e istituzionale.
Il sistema sociale appare fondato su una netta distinzione tra
liberi e
non liberi. "Alla base dell'opposizione - ha scritto Paolo Delogu - era un'arcaica intuizione per cui le due condizioni configuravano due tipi umani differenti. Solo i liberi erano uomini integrali in cui si realizzava la somma di doti e la dignità, anche fisica, proprie dell'uomo; motivazione profonda della stessa capacità di disporre di sé e di volere con completezza. I non liberi, sebbene distribuiti in varie classi, erano tutti privi, oltre che di volontà autonoma, di credibilità morale e di decoro". La distinzione tra liberi e non liberi costituiva il carattere basilare della società longobarda. Non si trattava però di una separazione assoluta: un libero, infatti, poteva perdere la libertà in conseguenza di una colpa grave o della rovina economica. Ma poteva anche accadere che un non libero particolarmente meritevole ottenesse la libertà, anche se il passaggio di condizione richiedeva il consenso della comunità solennemente riunita.
Il non libero non aveva un'autonoma capacità di agire in campo giudiziario, e non aveva capacità di parola in sede legale. In suo nome poteva agire soltanto il libero da cui egli dipendeva. Solo i liberi potevano dunque godere pienamente della legge longobarda. Sotto questo profilo, si nota però un'evoluzione significativa: mentre nel periodo successivo all'invasione la categoria dei liberi finiva per identificarsi quasi esclusivamente con quella dei conquistatori, che erano pertanto gli unici soggetti di diritto, adesso tutti i liberi, anche quelli che non erano di stirpe germanica, godevano dei benefici della legge longobarda. La condizione di libertà tendeva dunque a prevalere sulle discriminazioni etniche.
La distinzione fondamentale tra liberi e non liberi determinava una diversificazione delle pene in base alla qualità delle persone. La stessa pena di morte, che i non liberi subivano per reati comuni, talvolta persino banali, era inflitta ai liberi quasi esclusivamente per i reati di massima gravità (soprattutto politici).
La rilevanza sociale di ogni individuo poteva essere espressa in termini monetari, e la differenza tra i valori indicati per il risarcimento (il cosiddetto guidrigildo) conferma quella distinzione di base della società longobarda cui si accennava. I non liberi valevano da 16 a 50 soldi d'oro, in rapporto alla loro competenza ed esperienza lavorative, mentre i liberi valevano da 150 a 300 soldi. Il sistema del guidrigildo rappresentava comunque un grosso passo avanti rispetto al vecchio sistema della vendetta privata (faida).
Le contese giudiziarie - come in tutti gli ordinamenti di origine germanica - si risolvevano non tanto accertando la verità dei fatti, quanto stabilendo quale delle due parti avesse maggiore prestigio sociale e quindi maggiore credibilità. L'accusato poteva discolparsi ricorrendo al giuramento solenne, sui Vangeli o sulle armi, eventualmente rafforzato dal giuramento di altri liberi che si facevano garanti. Tra i longobardi il giuramento aveva un'importanza enorme, e chi lo avesse proferito falsamente si esponeva al discredito sociale e - si riteneva - a terribili punizioni da parte della divinità. Non di rado le contese si concludevano però con il duello giudiziario, che stabiliva in modo inequivocabile quale delle due parti avesse ragione.
L'Editto trasmette informazioni importanti anche riguardo all'economia e l'organizzazione del lavoro. La società longobarda si basava sull'agricoltura, sulla proprietà privata (prerogativa esclusiva dei liberi) e su rapporti di produzione di tipo signorile. La ricchezza si basava quasi esclusivamente sulla proprietà di terra, di servi, di bestiame. Nell'Editto il lavoratore appare soprattutto in quanto contadino, e l'unica manodopera non agganciata alla terra è costituita dai cosiddetti maestri comacini, che si spostavano da un luogo all'altro per restaurare o costruire edifici. Il commercio vi è praticamente assente, anche se certamente non possiamo immaginare che fosse del tutto scomparso.
Di particolare importanza si rivelano anche le attività della caccia (che integrava in modo consistente il fabbisogno di carne) e della raccolta (delle ghiande, del miele, dei frutti selvatici, ecc.). Alcune leggi dell'Editto, per esempio, regolano in modo minuzioso lo sfruttamento degli alveari nei boschi o si diffondono sul modo di assegnare una preda colpita da più cacciatori. Tutto questo rimanda a un sistema economico molto semplice, in cui la dipendenza dall'ambiente naturale era fortissima. Nell'Editto, infatti, la città fa la sua apparizione in riferimento a problemi di ordine pubblico, o in quanto luogo di residenza del re, ma non come luogo qualificato da una ben precisa caratterizzazione economica (commercio, artigianato).
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