3.2 L'impoverimento della penisola e l'insediamento dei vincitori
Quando i longobardi scesero in Italia trovarono un paese dissanguato dall'interminabile guerra tra bizantini e goti (
2.5) e devastato dalla peste: pochi anni prima - probabilmente nel 565 - un'epidemia di eccezionale gravità aveva infatti trasformato intere regioni un tempo floride in veri e propri deserti. Il ricordo di quei giorni terribili ci è rimasto nel racconto dello storico Paolo Diacono (VIII secolo):
Allora era scoppiata una peste tremenda, che divampò ovunque, colpendo soprattutto l'Italia centro-occidentale [...] e tutti fuggivano dalle città e dai villaggi nella disperata convinzione di evitare il contagio e la morte; solo i cani rimanevano a latrare davanti alle case abbandonate e nelle brughiere i greggi vagavano senza pastori. Da un giorno all'altro, i paesi da cui se ne andavano, tutti insieme, gli abitanti, cadevano nel silenzio più assoluto [...] e sembrava ormai che il mondo fosse ritornato al silenzio dei primordi. Non si udiva voce nelle campagne, i pastori non fischiavano più ai loro armenti e non c'era nessuno a rubare i polli incustoditi. Il grano, cresciuto rigoglioso, nel pieno della stagione della mietitura aspettava sfolgorante, invano, chi lo tagliasse e poi si afflosciava bruciato dal sole, mentre in autunno cadevano secche le foglie dai grappoli rigogliosi delle vigne non vendemmiate. E l'inverno si avvicinava, e il morire della bella stagione autunnale era scandito giorno e notte da lunghi suoni di tromba e dal calpestio di cavalli e di uomini chiamati a battaglia; rumori che assordavano le orecchie dei malati [...]. Col tempo i cadaveri degli uomini si assiepavano ai bordi delle strade a perdita d'occhio, le carogne degli animali ingombravano le lande steppose dei pascoli, gli animali selvaggi entravano nelle case trasformate in tane.
Il trauma dell'invasione accelerò il declino economico dell'Italia, già in atto da secoli. Il commercio interno e ancor più quello con le altre regioni dell'Europa e del Mediterraneo subirono un crollo: è significativo che l'unica moneta coniata dai longobardi per molto tempo sia stata una moneta d'oro di valore piuttosto elevato, certamente non destinata alle piccole transazioni di ogni giorno e nemmeno al commercio di media entità e quindi usata unicamente come deposito del valore e per esprimere i simboli del potere. Intanto le campagne, spopolate e devastate, cedevano il posto alle foreste, le attività propriamente agricole all'economia dei boschi: la caccia e l'allevamento brado. Le popolazioni locali furono in gran parte asservite.
L'evoluzione del significato di alcune parole attinenti alla vita materiale è un chiaro segno di questo impoverimento. Il dilagare della miseria nelle campagne è riflesso, per esempio, nella storia di una parola come casa. Per indicare la "casa" come la intendiamo oggi, i romani dicevano domus; con casa indicavano invece una povera capanna di legno e paglia. Ebbene, in questo periodo l'abitazione non fu più chiamata domus ma casa: l'abitazione tipica era diventata infatti il tugurio, la capanna che accoglieva i poveri contadini. In questa accezione la parola è giunta fino a noi. Scomparve anche quasi completamente l'uso civile della scrittura, e questa circostanza è la migliore conferma del regresso sociale e culturale dell'Italia longobarda.
Il dominio longobardo in Italia fu molto duro. Al contrario degli ostrogoti, così rispettosi delle tradizioni e delle istituzioni romane, essi preferirono la rigida applicazione della legge del più forte. Fu cancellata ogni traccia dell'amministrazione civile romana, mentre ai romani fu attribuita una condizione politica inferiore: il diritto di portare le armi, segno distintivo dell'uomo libero, fu loro vietato. Ma il dominio longobardo non ebbe soltanto conseguenze politiche. Esso è stato giustamente definito una "frattura di civiltà" nella storia d'Italia.
La prima conseguenza fu la scomparsa di una classe dirigente depositaria di una secolare tradizione di potere e di cultura: l'aristocrazia romana, che sotto gli ostrogoti aveva mantenuto una posizione di rilievo, fu annientata; molti suoi esponenti furono uccisi, altri furono privati delle terre e delle cariche pubbliche; altri ancora preferirono emigrare. Una sorte analoga subì l'altro gruppo dirigente italico, rappresentato dalla gerarchia ecclesiastica, che aveva manifestato un forte attaccamento alla tradizione romana, oltre a un profondo disprezzo per la religione degli invasori. I longobardi presero il posto degli antichi proprietari fondiari, ma, da conquistatori, esercitarono sulle proprie terre una signoria molto più dura.
I longobardi costituivano una percentuale minima dell'intera popolazione dei territori da loro occupati. In mancanza di stime precise, si può fissare un ordine di grandezza, puramente orientativo, del 5%. Il loro insediamento si svolse, di conseguenza, tanto nelle città che nelle campagne, in piccoli gruppi familiari, chiamati fare, chiusi e staccati rispetto alle popolazioni locali. I luoghi prescelti - nelle città, nei castelli, nei nodi stradali - rispondevano quasi sempre a esigenze di controllo militare del territorio. Testimonianze odierne di questi insediamenti sono i numerosi toponimi in "fara" diffusi nella penisola: per esempio Fara Gera d'Adda (Lombardia), Fara in Sabina (Lazio), Fara Novarese (Piemonte), Fara San Martino (Abruzzo), Fara Vicentino (Veneto) e tanti altri.
In mancanza di documenti letterari soddisfacenti, le fonti più utili per lo studio di questi insediamenti sono essenzialmente archeologiche, e tra queste le principali sono i sepolcreti. Lo studio delle inumazioni indica l'esiguità numerica degli occupanti (in media 300 presenze circa per generazione, con punte maggiori, ma non di molto, nelle città), il carattere guerriero del loro modo di vita (quasi tutti i maschi adulti risultano sepolti con le armi), il distacco dalle popolazioni locali (che venivano sepolte in cimiteri separati).
Torna all'indice