1.2 Contatti tra popoli e identità culturali
Nel corso del VI secolo l'impeto delle grandi invasioni si era placato lentamente e sui territori dell'Impero romano d'Occidente si erano formate nuove compagini politiche, i regni romano-germanici. Romani e "barbari", vinti e vincitori, avevano chiuso ormai la battaglia delle armi; restava, non meno arduo e complesso, il problema della convivenza. Non sempre fu possibile, infatti, trovare forme di convivenza capaci di fondere una tradizione di cultura ormai millenaria con il modo di vita dei conquistatori. "Un goto intelligente vuole assomigliare a un romano; solo un romano da poco vorrebbe assomigliare a un goto"; questa frase attribuita a Teodorico, re degli ostrogoti, esprime chiaramente lo stato d'animo di molti barbari verso i romani, il loro desiderio di adeguarsi a un modello di vita ritenuto superiore, la loro volontà di compiere il grande salto nella civiltà mediterranea. Tuttavia questo atteggiamento si accompagnava spesso al timore di perdere la propria identità culturale, di smarrire la propria fierezza guerriera tra le mollezze e le seduzioni di una civiltà ancora troppo diversa ed estranea. I romani, d'altra parte, non mascheravano la loro indifferenza e il loro disprezzo: i barbari non sapevano scrivere, avevano leggi strane e incomprensibili, ignoravano che cosa significasse vivere in città, e soprattutto erano ariani (seguaci cioè di Ario, che aveva sostenuto, nel IV secolo d.C., che il Cristo non era della stessa sostanza del Padre, ma una sua creatura); i barbari erano quindi eretici e nemici della fede cattolica. Questo muro che separava vincitori e vinti fu abbattuto solo molto lentamente (p. 20 e 21).
Nei primi anni della loro formazione i regni barbarici erano monarchie piuttosto rudimentali, dove non esistevano precise norme di successione e dove contava soprattutto la schiera di guerrieri, parenti e seguaci che attorniava il sovrano. Essi non avevano un sistema amministrativo, né una qualsiasi organizzazione che potesse farsi carico della gestione del governo; nel mondo romano, al contrario, erano rimaste in piedi molte delle precedenti strutture amministrative, con i loro uffici, i loro funzionari, i loro procedimenti collaudati da secoli di esperienza. Le necessità di governo indussero spesso i barbari a conservarle, adattandole alla nuova situazione. Rimasero pertanto in vita molte strutture dell'
amministrazione romana, e persino il vecchio senato di Roma continuò a funzionare, anche se ridotto a un ruolo modestissimo. Nelle varie regioni un tempo appartenenti all'Impero d'Occidente il termine "senatore" non indicava più i membri effettivi del senato romano, ma individui di origine romana ricchi e potenti a livello locale.
I re barbari si preoccuparono anche di preservare, per i loro sudditi romani, l'antico patrimonio giuridico della Roma antica: Alarico II, re dei visigoti, fece per esempio riassumere, nel 506, il Codice Teodosiano, che l'imperatore Teodosio II aveva pubblicato circa 70 anni prima (questo riassunto si chiamò Breviario Alariciano). La culla del
diritto romano restò in quest'epoca, e poi durante tutta l'età medievale, l'Italia: qui si perpetuava la tradizione degli antichi giuristi e la conoscenza delle norme emanate dagli imperatori, qui si depositava un sapere che sarebbe servito, secoli dopo, anche come sistema concettuale di riferimento nell'elaborazione di teorie politiche moderne.
Nelle regioni dove l'amministrazione e il diritto di Roma si mantennero più vitali, essi produssero un'organizzazione caratteristica, che gli storici chiamano dualistica. Essa si basava sulla cosiddetta personalità del diritto, un concetto giuridico in base al quale chiunque fosse sottoposto a giudizio era tenuto a "professare" la propria legge, cioè a dichiarare se voleva essere giudicato in base alle leggi dei germani o a quelle dei romani. In Italia, essa fu instaurata da Odoacre, ma applicata con successo soprattutto da Teodorico; in Gallia, pur se con sfumature differenti, fu usata dai franchi e permise anche lì la convivenza tra le due popolazioni. La società cioè fu teoricamente suddivisa in due popoli diversi, entrambi sottoposti all'autorità di un re barbaro: da una parte i germani, appunto, che costituivano essenzialmente l'esercito, sottoposti a una rigida disciplina militare e alle loro consuetudini trasmesse oralmente; dall'altra i romani, inseriti unicamente nell'amministrazione civile e sottoposti al diritto romano. Soltanto nella Spagna visigota fu applicato il principio della territorialità del diritto, quando il re Recesvindo (653-72) pubblicò il suo Liber iudiciorum, nel quale le due tradizioni giuridiche furono fuse in una sola.
Per gli invasori il primo problema da risolvere fu la distribuzione delle terre conquistate. In Africa i vandali applicarono una politica dura e priva di compromessi con la popolazione locale e ricorsero quindi, senza mezze misure, all'esproprio totale delle terre che un tempo erano appartenute alla nobiltà romana e alla Chiesa. In Gallia, in Spagna e in Italia, invece, i germani si limitarono a prelevare solo una parte dei terreni coltivati (da 1/3 a 2/3 a seconda delle regioni), lasciando il resto ai precedenti proprietari; va sottolineato che così facendo si adeguavano a una tradizionale usanza romana: il cosiddetto regime della hospitalitas, che le truppe imperiali solevano imporre nei territori dove erano acquartierate.
Sulla sopravvissuta società romana questa divisione delle terre non ebbe conseguenze particolarmente gravi - a parte l'eccezione dell'Africa occupata dai vandali - sia perché le tradizionali
strutture agrarie furono solitamente conservate, sia perché la forma agronomica più diffusa era il latifondo, spesso tanto grande da poter essere ridimensionato senza eccessivi sacrifici, sia, infine, perché l'Europa stava vivendo un'epoca di fortissimo decremento demografico (
1.3): a tutto ciò va aggiunto poi che i grandi proprietari non rimpiangevano troppo i campi che avevano dovuto cedere, se la perdita veniva compensata dalla presenza di una forte autorità militare, che li garantiva da nuove invasioni o dalle continue scorrerie dei briganti.
Più profondi furono invece gli effetti sulle società germaniche. Le terre cedute dai romani passavano infatti ai personaggi più influenti delle tribù, i quali a loro volta le dividevano in piccoli appezzamenti che distribuivano ai loro guerrieri perché li coltivassero. Questi ultimi diventavano così contadini dipendenti o piccoli proprietari, mentre i primi cominciavano a formare un'aristocrazia fondiaria germanica con caratteristiche simili all'aristocrazia romana e, come questa, nettamente contrapposta alla massa dei coloni. Questo processo, che si compì nel giro di poche generazioni, determinò forti squilibri nelle comunità germaniche, tradizionalmente fondate su una struttura sociale di tipo egualitario, ma favorì anche, per altro verso, l'avvicinamento e a volte addirittura l'integrazione tra l'élite barbarica e i ceti dominanti romani.
L'organizzazione del lavoro all'interno delle grandi unità produttive restò quella ormai tradizionale, basata sul
colonato e sulla
schiavitù. Il colono, teoricamente libero, era in realtà, fin dall'epoca costantiniana, legato alla terra: ragioni fiscali, unite all'interesse dei grandi proprietari che non volevano perdere la loro manodopera, avevano fatto del colono una sorta di "servo della terra" (servus terrae). La sua condizione si era quindi andata assimilando a quella dello schiavo, e questa assimilazione era stata tanto forte che le due condizioni, di fatto se non di diritto, ormai quasi coincidevano. Certo, la condizione dello schiavo era leggermente migliorata anche in conseguenza delle dottrine più umanitarie diffuse dal cristianesimo (che non si spinse mai, tuttavia, fino a proporre l'abolizione della schiavitù), ma l'aspetto decisivo di questo avvicinamento tra colonato e schiavitù riguardava l'organizzazione stessa della produzione: nei vasti latifondi dell'epoca, coloni e schiavi lavoravano alle dipendenze di un unico padrone, in tante piccole cellule produttive a carattere familiare. Dal punto di vista economico quasi nulla distingueva ormai il lavoro del libero rispetto a quello dello schiavo.
La potenza dei senatori romani, molto indebolita dal punto di vista strettamente politico, era sempre fortissima dal punto di vista economico e sociale. Nelle nuove compagini romano-germaniche essi si erano ritirati a vivere prevalentemente nelle campagne. Qui essi esercitavano su centinaia, a volte migliaia, di contadini il loro
patronato, una sorta di "protezione" consistente in realtà in un vero e proprio dominio, con larghi margini di autonomia rispetto al potere centrale. Anche il patronato era un fenomeno risalente all'età tardoantica, ma nelle nuove società romano-germaniche, dove la presenza dei pubblici poteri era molto meno capillare, esso assunse dimensioni mai raggiunte prima.
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