1. Romani e barbari
1.1 Il crollo dell'Occidente
Perché è crollato l'Impero romano d'Occidente? Più che una domanda storiografica, questo è stato per secoli un angoscioso interrogativo. La caduta di Roma è stata infatti presa a paradigma di ogni possibile catastrofe: se quell'impero così solido e potente, che aveva espresso in ogni campo dell'attività umana una cultura di mirabile livello, forme di aggregazione complesse, una macchina militare efficiente, aveva infine dovuto soccombere, questo vuol dire che qualsiasi civiltà deve confrontarsi con il fantasma di una possibile rovina.
Questo interrogativo tanto carico di ansie e di timori è diventato più pressante nei momenti di grande crisi, quando gli uomini hanno davvero visto davanti ai loro occhi la catastrofe incombente. Non è un caso, dunque, che una grande intensità di ricerche intorno a questo tema si sia addensata, per esempio, dopo le due guerre mondiali.
Specchio di ogni possibile catastrofe, la caduta dell'Impero romano è anche uno degli avvenimenti più difficili da interpretare. Gli storici hanno fatto spesso ricorso a una spiegazione monocausale: la ricerca di un'unica causa, di un motivo prevalente. L'elenco delle formule proposte sarebbe lungo: "espansione dell'economia naturale ai danni di quella monetaria", "inadeguatezza delle istituzioni", "aggressione dei barbari", "disfacimento interno", "diffusione del cristianesimo", "perdita della libertà", "decadenza razziale", "rivoluzione del proletariato" e così via. Senza togliere nulla ad alcune di queste formule (altre, come vedremo, sono palesemente infondate), gli storici sono oggi abbastanza convinti del fatto che spiegazioni unilaterali siano inadatte a spiegare uno dei fenomeni più complessi dell'intera storia umana. Essi tendono pertanto a ricostruire un insieme di fattori, quel groviglio di elementi patologici interni e di eventi esterni che portò alla caduta dell'Impero.
Una prima constatazione è d'obbligo. L'Impero romano non cadde da un giorno all'altro. Si trattò infatti di un'evoluzione lunga, che coinvolse circa tre secoli, fino al fatidico anno 476, quando fu deposto l'ultimo imperatore Romolo Augustolo. L'elemento fondamentale di questa evoluzione è il progressivo e inesorabile emergere delle culture locali e il parallelo sfaldamento dello Stato romano, secondo un processo che avrebbe portato da un'unità politica di tipo imperiale ai vari regni romano-germanici.
L'Impero romano era stato una compagine supernazionale (gli stessi imperatori provenivano da tutte le regioni, dalla Spagna, come dall'Africa, dall'Italia come dall'Illirico) e di cultura greco-romana (erano queste le due lingue principali). La partecipazione delle varie componenti etniche alla gestione dell'Impero doveva dunque passare attraverso un'assimilazione a questa cultura e al sistema di valori che attraverso di essa si esprimeva. Era una cultura sostanzialmente urbana: la stessa parola civilitas ("civiltà") rimanda a civitas ("città"); c'era dunque un nesso inscindibile tra il mondo urbano e i valori morali e culturali della romanità;
Sotto il profilo economico, la forza di penetrazione e la sopravvivenza di questa cultura era affidata a un esercito permanente di lunga ferma (dai 20 ai 25 anni di servizio) e a un apparato amministrativo stabile. Il mantenimento di queste strutture comportava una pressione fiscale molto forte, che gravava soprattutto sulle masse contadine: il tributo principale, la capitazione, colpiva infatti le campagne e si basava su un meccanismo di conguaglio tra forza lavoro e capitale (la terra). In base a questo meccanismo le regioni più duramente colpite dal fisco erano quelle dove l'indice demografico era più basso.
È evidente che la sopravvivenza dell'Impero poteva essere garantita solo fino a quando fossero state disponibili risorse economiche in grado di rispondere adeguatamente alla pressione fiscale. Il meccanismo cominciò a incepparsi sotto Marco Aurelio (161-180 d.C.), quando l'Impero fu colpito da una gravissima epidemia di peste: la manodopera disponibile nei settori vitali della produzione diminuì drasticamente, la produzione crollò, i prezzi aumentarono. Tutto questo accadeva mentre lo scenario bellico poneva l'esercito romano nella più difficile delle situazioni: affrontare guerre su due fronti, contro i persiani e contro i germani.
Il massimo dello sforzo militare venne in altre parole a coincidere con la crisi economica e i sudditi furono chiamati a fornire tributi ingenti proprio nel momento in cui le loro risorse erano drasticamente affievolite. Nelle provincie lo Stato romano apparve sempre più come sinonimo di tirannide: alla pressione fiscale si aggiungeva infatti la richiesta di prestazioni coatte ed ereditarie nei settori vitali della produzione e dei servizi. I coloni furono legati alla terra, i figli dei soldati furono obbligati a seguire il mestiere paterno, i trasportatori marittimi furono vincolati alle loro funzioni. In Oriente, dove il potenziale demografico e produttività erano più forti, la crisi fu superata e la nuova Roma fondata da Costantino, Costantinopoli, visse altri mille anni. In Occidente il miracolo non avvenne, e la cultura greco-romana fu sopraffatta dalla rinascita delle culture locali.
Dal punto di vista politico la separazione tra le due parti del mondo romano si era accentuata nel 395 d.C., quando l'imperatore
Teodosio, morendo, aveva lasciato l'Impero ai suoi due figli: ad Arcadio (395-408) l'Oriente, a Onorio (395-423) l'Occidente. Data la loro giovane età - il primo aveva diciotto anni, il secondo undici - egli li aveva affidati a un fedele generale di origine vandala, Stilicone. L'autorità di quest'ultimo si esercitò soltanto su Onorio, perché Arcadio dichiarò subito di voler seguire una politica autonoma. Si creò così una gravissima frattura tra le due parti dell'Impero, che non sarebbe stata più sanata.
Stilicone s'impegnò a fondo nella lotta contro i barbari. Nel 402 sconfisse in due battaglie, a Pollenzo (nella valle del Tanaro) e a Verona, i visigoti di Alarico, e li obbligò a stipulare un'alleanza. Nel 406 sconfisse a Fiesole gli ostrogoti, ma lo stesso anno una vasta coalizione di popoli (svevi, alani, vandali, burgundi) si avventò sull'Impero e invase la Gallia. La posizione di Stilicone si fece ogni giorno più difficile: l'imperatore d'Oriente, Arcadio, non era disposto ad aiutarlo, il senato non lo amava, l'opinione pubblica, sobillata dai suoi nemici, gli rinfacciava la sua origine barbara e lo sospettava ingiustamente di essere d'accordo col nemico. Nel 408 i soldati romani gli si ribellarono, e Onorio lo fece decapitare. Morì così, come un traditore, uno dei più devoti servitori dell'Impero romano.
Il tragico fallimento di Stilicone fece precipitare la situazione. Nel 410 Alarico occupò Roma e la saccheggiò; era dai tempi dell'incendio gallico, cioè da otto secoli, che la città non subiva una simile onta. L'emozione tra i contemporanei fu grandissima. Compiuto il saccheggio, Alarico proseguì verso sud; la sua intenzione era quella di passare in Africa, terra ricca di grano, e insediarvisi stabilmente, ma la morte lo colse quello stesso anno a Cosenza. I suoi uomini risalirono la penisola e occuparono la regione gallica dell'Aquitania. Nel 418 Onorio li considerò ufficialmente suoi "federati" (alleati) e riconobbe i loro possedimenti: questo atto segnò la nascita del primo Regno romano-germanico d'Europa: il Regno visigoto di Tolosa.
Dopo di allora altre popolazioni barbare s'insediarono in diverse zone dell'Impero. Nel 409-11 svevi, alani e vandali occuparono la Spagna; nel 429 i vandali, guidati da Genserico, passarono lo stretto di Gibilterra e al successore di Onorio, Valentiniano III (425-55), non restò che riconoscere il loro dominio sull'Africa occidentale; fu un fatto gravissimo, perché l'Italia non poteva sopravvivere senza il grano africano. Nel 442 l'isola di Britannia fu occupata dagli angli e dai sassoni. Nel 443 i burgundi furono riconosciuti signori della Savoia (Giura meridionale, a sud del lago di Ginevra).
Intanto gli unni si facevano sempre più minacciosi. La fama della loro ferocia e del loro aspro modo di vita aveva da tempo raggiunto il mondo romano, come testimonia l'inorridita descrizione che ne aveva fatto qualche decennio prima lo storico Ammiano Marcellino (p. 19). Il loro re
Attila, guerriero e capo dalla grande personalità, aveva unito sotto la propria autorità una grande confederazione di popoli che si estendeva dal Volga al Reno e rappresentava un serio pericolo sia per l'Impero d'Oriente che per quello d'Occidente. Nel 451 egli invase le Gallie, ma il valoroso generale Ezio, grazie anche all'appoggio degli alleati goti, burgundi e franchi, lo sconfisse nella battaglia dei Campi Catalaunici, nella Francia nordorientale. L'anno seguente, però, Attila scese in Italia e prese Aquileia, Padova, Verona, Milano, Pavia; meditava già di spingersi fino a Roma quando lo raggiunse un'ambasceria guidata da papa Leone I (440-461). La forte personalità di quest'uomo di Chiesa e le stesse difficoltà dell'impresa lo convinsero a lasciare la penisola dietro pagamento di un tributo. Attila morì nel 453 e con la sua morte si dissolse anche l'impero unno.
Ma ormai il crollo dell'Occidente era vicino. I vandali, padroni di una flotta con basi nell'Africa settentrionale, sbarcarono a Ostia e saccheggiarono Roma; gli imperatori che si alternavano sul trono erano uomini di paglia del tutto privi di prestigio, il potere era nelle mani dei generali, tutti di origine barbara. Nel 475 salì al trono un ragazzo che, per ironia della sorte, si chiamava Romolo, come il mitico fondatore di Roma, e che presto, data la sua giovane età, ebbe il soprannome di Augustolo, "piccolo Augusto". Dopo un anno di regno un ufficiale barbaro,
Odoacre, lo depose e ne prese il posto; ma non si attribuì il titolo di imperatore bensì quello di "patrizio"; quindi dichiarò che avrebbe governato l'Occidente a nome dell'imperatore d'Oriente. Era il 476. L'Impero romano d'Occidente aveva di fatto finito di esistere.
Sulle rovine del mondo antico i barbari consolidarono le loro posizioni e fondarono nuovi regni. Agli inizi del VI secolo, dopo alcuni decenni di assestamento, l'Europa era ormai divisa in vari
regni romano-germanici: il Regno dei vandali, comprendente la costa settentrionale dell'Africa, le Baleari, la Corsica, la Sardegna, la Sicilia; il Regno dei visigoti, che occupava quasi tutta la penisola iberica; il Regno dei franchi, che nel 534, dopo la sottomissione dei burgundi, si estese a quasi tutta la Gallia. In Inghilterra si formarono vari regni anglosassoni, tutti di piccole dimensioni. Le popolazioni celtiche della Scozia e dell'Irlanda si difesero con accanimento, mantenendo a lungo la propria indipendenza. In Italia si formò il Regno degli ostrogoti (
2.4).
Per regno "romano-germanico" s'intende un territorio dell'Impero romano d'Occidente sul quale si erano insediati un esercito e un popolo germanici separati dalla patria d'origine e considerati giuridicamente come alleati dell'Impero e, quasi sempre, come truppe al servizio prima di Roma e poi di Costantinopoli (Rouche). Questi regni traevano la loro legittimità unicamente dal riconoscimento dell'imperatore romano d'Oriente: in linea teorica l'Impero romano d'Occidente era sempre in vita e annesso alla parte orientale, e i re germanici lo governavano per mandato dell'imperatore. Questo riconoscimento formale aveva scarsissima rilevanza dal punto di vista dei concreti rapporti di potere - i regni romano-germanici erano infatti sostanzialmente indipendenti - ma aveva invece grande rilievo, per i vari regni, come fattore di legittimità e di prestigio, sia nei loro rapporti reciproci sia nei riguardi di altre popolazioni non ancora insediate.
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